Ho una laurea in Ingegneria e mi occupo di temi che con la narrativa e la scrittura non c'entrano nulla. Sarebbe fin troppo facile dire che la passione per i libri è nata come forma estrema di compensazione umanistica agli argomenti che ho studiato all'università e che ancora oggi riempiono buona parte delle mie giornate. Forse è proprio così, ma non ha molta importanza. La passione c'è, da moltissimo tempo (insieme all'altra mia grande passione, quella per la musica). Ho scritto una storia e non so se come scrittore valgo qualcosa, ma so per certo, e ne sono molto orgoglioso, di essere un grande lettore. Ed è stato così che, leggendo una delle mille storie in cui mi sono imbattuto in questi anni, ho iniziato a fantasticare e in un certo senso a invidiare l'ebbrezza che doveva aver provato chi quelle storie le aveva immaginate, e ho sentito il desiderio di sapere cosa si prova a dar vita a un personaggio, a decidergli l'altezza e il colore degli occhi, a farlo muovere dentro le pagine di un manoscritto, a vederlo crescere, trasformarsi, interagire con la felicità, con il dolore e con le mille complessità delle comuni esistenze. C'è voluto molto tempo, per tante ragioni che penso non interessino a nessuno, ma alla fine quell'ebbrezza l'ho provata davvero, ed è una sensazione inebriante come quelle che si provano da bambini di fronte a una scoperta meravigliosa e inaspettata.
Credo che nessuno di noi sia artefice del proprio destino, penso che quasi tutto dipenda dagli intrecci del Caso - con la C maiuscola, come una divinità -. Scrivere, quali che siano i risultati, mi sembra talvolta l'unica strada per provare a opporsi a questo fatalismo un po' feroce e al senso di rassegnazione che inevitabilmente porta con sé.
Prendendo in prestito una celebre espressione di Antonio Tabucchi riferita a Pessoa e ai suoi mille eteronimi, mi verrebbe da dire "una (sola) moltitudine". Con il dolore e lo sgomento al centro, e gli infiniti possibili punti di vista di chi quelle storie le ha vissute (sulla propria pelle o da spettatore sgomento) o soltanto, tempo dopo, incontrate tra le pagine dei libri. Tra le tante possibili sfumature di quelle storie ho provato a dar voce a quella dei sopravvissuti. Immaginandone il vuoto, la solitudine, le domande irrisolte. La rabbia per la verità negata ancora oggi, dopo decenni. Ho pensato a quelle esistenze che nessuno conosce perché al massimo conosciamo le storie delle vittime o di alcune di loro, solo di rado quelle di chi sopravvive. E quasi sempre è soltanto grazie agli stessi sopravvissuti - penso alle associazioni dei familiari delle vittime- se sappiamo qualcosa di loro, se ne conosciamo i volti e se in qualche caso siamo persino ammessi a guardare i segni che dopo decenni continuano a portare sulla pelle.
Poi in qualche modo la storia narrata nel libro ha assunto un'altra piega, forse inaspettata persino per me: è diventata una storia privata, una delle tante storie possibili, con l'eco della stazione a rimbalzare nel vuoto lasciato nella vita della protagonista dalla morte del padre.
Avevo sette anni all'epoca della strage, non ne ho alcun ricordo diretto. Negli anni successivi è cresciuto in me l'interesse per la storia italiana di quel periodo, da Piazza Fontana in poi, storia che in un certo senso culmina con le stragi di Ustica e di Bologna (anche se quattro anni dopo ci sarebbe stata la bomba sul Rapido 904, ultimo atto della strategia della tensione). E in mezzo i movimenti studenteschi, le lotte operaie, i cortei, l'epopea tragica delle Brigate Rosse. Mi sono chiesto spesso cosa ci fosse nella testa e nel cuore dei protagonisti di quella stagione straordinaria e atroce. Cosa li avesse spinti su quella strada. Ho letto moltissimi libri sul tema, ho visto film, interviste, documentari, ascoltato canzoni, ma quasi nessuna di quelle domande ha trovato risposta. Immaginare le storie di ipotetici protagonisti è stato forse l'ultimo tentativo di trovarle, quelle risposte. Tentativo velleitario, superfluo dirlo, ma che non rimpiango di aver fatto.