NON SONO PIU’ I TEMPI IN CUI BERTA FILAVA
Di Liza Binelli
Chi non ha mai sentito il detto: “Ai tempi in cui Berta filava”? Tutti conosciamo questo antico adagio che vuol dire “in tempi lontanissimi”. È un’espressione legata ad un aneddoto della storia europea dell’Alto medioevo, il cui uso ricorre in alcune frasi proverbiali della lingua italiana per riferirsi a un tempo trascorso, non solo assai remoto, ma proprio “concluso”. Ma chi era questa benedetta Berta che filava? La leggenda dice che si trattava di Berta di Laon detta la Piedona, moglie del re francese Pipino il Breve e madre di Carlo Magno. Quindi, Berta era una regina. Il menestrello e trovatore Adenet le Roi, vissuto attorno al 1275, ha scritto un poema la cui protagonista era Berta la Piedona, chiamata così, perché aveva un piede più lungo dell’altro. Si tratta di una “chanson de geste” in versi alessandrini, intitolata “Li Roumans de Berte aus grans piés”. Il testo racconta che durante il viaggio che fece per raggiungere il futuro sposo, la principessa Berta è stata sostituita con la figlia della sua dama di compagnia, è riuscita a fuggire e ha trovato rifugio nella casa di un taglialegna presso il quale ha vissuto per qualche anno, facendo il lavoro di filatrice. Poi, grazie alla particolarità di piedi diversi, la sostituzione è stata scoperta allora a quel punto, Berta ha preso il suo posto sul trono francese. Dacché Berta la Piedona è patrona delle filatrici. Ma esistono anche altre versioni e nel corso dei secoli sono fiorite e circolate varie credenze e tradizioni, alcune delle quali si tramandano nella letteratura favolistica.
Un’altra leggenda, infatti, dice che Berta fosse una vedova molto povera, ma molto devota al suo re. Un giorno filò una lana sottilissima e la donò al sovrano. Questi, saputo della sua povertà, le regalò molti denari garantendole così una vita agiata. Quando i sudditi seppero di questo gesto tanto generoso, iniziarono a donargli filati pregiati, ma il sovrano rispose: “Non sono più i tempi che Berta filava”. L’esistenza e la circolazione della frase proverbiale nell’area linguistica italiana, comunque, risalgono a molti anni addietro; difatti, l’espressione era già viva nel Cinquecento, come testimonia “L’Historia Orceana” di Domenico Codagli, che tenta anche di darne una spiegazione nell’ambito della storia locale del paese di Orzinuovi, un borgo della Bassa Bresciana. Nella sua Historia Orceana, così argomenta la sua divulgazione: «Prima chj 'incrudelissero in questo modo le fattioni, vogliono che ne gl’Orci fusse una vecchiarella per nome Berta, che solita era di star tutto ‘l giorno su le muraglie vicino la Rocca, guadagnandosi con la conochia il vivere […], ne nascesse il proverbio: non è più ‘l tempo che Berta filava». La frase proverbiale sopravvive nel corpus linguistico dell’Italia contemporanea, dove, viene spesso adottata nella titolatura di opere di varia natura. In campo pittorico, ad esempio, è presente nel titolo del dipinto “Quando Berta filava”, appartenente al pittore ottocentesco Paolo Mei e nell’opera “La Reine Berthe et les fileuses” di Albert Anker (1881).
Nella tradizione della canzone d’autore italiana, la frase è nota per essere il titolo di un brano di Rino Gaetano, del 1976, pubblicato dalla casa discografica It.
Esistono, comunque, altre tradizioni che farebbero risalire il detto proverbiale non a Bertrada di Laon, ma a un racconto leggendario, riguardante un’eroina della letteratura cavalleresca, Geneviève de Brabant (Genoveffa, o Ginevra del Brabante). La storia di Genoveffa, figlia del Duca di Brabante, è tramandata e ripresa da numerose fonti, in diverse varianti, tra cui quella italiana di Andrea da Barberino, in un capitolo de “I Reali di Francia” (XIV secolo-XV secolo).
Un’altra tradizione, fiorita a Fidenza, è legata all’interpretazione di un pezzo del ciclo scultoreo e decorativo in stile romanico della Cattedrale di San Donnino. Essa vorrebbe identificare la Berta del proverbio con Berta di Savoia, moglie di Enrico IV di Franconia e madre di Corrado II d’Italia e Enrico V, un’individuazione che prende spunto da un rilievo romanico di una formella murata sulla fronte della Torre del Trabucco del duomo cittadino. Il bassorilievo, molto consunto dall’erosione e quasi indecifrabile, mostra una figura assisa tra due animali di difficile identificazione. La figura regge due lunghi bastoni, ognuno dei quali reca, a ciascuna estremità, due forme che possono sembrare due fusi. Questo particolare ha indotto a credere che si trattasse di una donna intenta a filare la lana.
Oggi ci sono i macchinari che preparano il filo. Ma come si filava un tempo? In cosa consisteva quest’arte? Perché di arte si parla. Per torcere le fibre, la filatrice si avvaleva delle sue abili mani e di un attrezzo: il fuso, formato da un bastoncino infilato in un tondino forato (largo 4-6 cm). La rotazione impressa al bastoncino, prolungata dall’inerzia del tondino torce le fibre che vengono legate al fuso, che nel girare accumula sul bastoncino il filo fatto. Dalla torcitura (torsione) di fibre grezze (lino o lana o canapa o cotone o seta), la filatrice ottiene filati dotati di particolari caratteristiche che serviranno per stoffe di tutti i tipi. Nei paesi dell’Altosanno, la filatura, tradizione tipicamente femminile, riguardava essenzialmente la lana e veniva praticata nei pomeriggi estivi e, soprattutto nelle lunghe serate invernali. Il lavoro durante i mesi più freddi, veniva svolto nelle stalle, dove la gente era solita trascorrere la serata al caldo fiato delle mucche. La lana veniva prima cardata, facendola passare e ripassare tra due assi di legno contrapposti, dai quali fuoriuscivano lunghi chiodi; poi filata con il fuso; infine, la lana filata veniva raccolta in matasse, lavata in acqua calda, quindi usata per fare calze, maglioni, maglie, scialli ecc.
Tornando all’uso dell’antico adagio: “Non sono più i tempi in cui Berta filava”. Un’altra leggenda la si trova nella cultura popolare in Veneto ai piedi dei Colli Euganei, e precisamente a Montegrotto Terme, a pochi chilometri da Padova. Il borgo medioevale conserva in cima al Monte Castello la ricostruzione della Torre di Berta quale ricordo della leggenda che caratterizza il paese e che narra la storia di una contadinella vissuta nei primi anni del XI secolo. L’episodio della leggenda di Berta qui si svolge nel 1084 quando Enrico IV, imperatore del Sacro Romano impero e l’imperatrice Bertha di Savoia, in fuga da Roma e di ritorno in Franconia, fecero visita ai signori Da Montagnon, nelle terre degli Euganei, rinomate per gli effetti benefici delle loro acque termali. Mentre l’imperatrice si trovava a rientrare a palazzo, una contadina, anch’essa chiamata Berta, si avvicinò alla regina per chiedere la grazia per il suo sposo, prigioniero nelle segrete del castello per non aver pagato la decima dovuta al padrone del feudo. La regina prese a cuore il dramma della poverella e concesse la grazia al suo amato. Non sapendo come ringraziare la regina per l’immenso dono ricevuto, la filatrice volle regalarle il suo filo. Fu così che la nobildonna, che mai si sarebbe aspettata un regalo da una contadina, si commosse al punto da premiare tanta generosità e concedere alla giovane Berta, tanto terreno quanto il filo della matassa ne poteva contenere. Le donne del paese, saputa la grande fortuna toccata alla concittadina, si precipitarono dalla regina portando ognuna una matassa di filo. Ma la sovrana si rivolse a loro ammonendole con il detto che ancora oggi viene usato per alludere ad un passato finito e che non può più tornare.