In occasione della ormai vicina release discografica inedita dell’opera Il barone burlato di Domenico Cimarosa (etichetta VDC Classique) prevista per il prossimo 24 dicembre, chiediamo al direttore d’orchestra e musicologo Simone Perugini, considerato tra i maggiori esperti del musicista aversano, di inquadrarne la figura, la biografia e la collocazione artistica.
D: Maestro: Domenico Cimarosa, chi era costui?
Beh, la sua fama, anche oggi, è sicuramente maggiore di quella di Carneade di Cirene di manzoniana memoria. Cimarosa fu un compositore prevalentemente di musica per il teatro d’opera, nato e vissuto negli ultimi decenni del Settecento. Il suo nome è più o meno presente in tutti i manuali di storia della musica, anche quelli destinati alle scuole medie, anche se, ancora, viene citato quasi esclusivamente come il musicista che compose due capisaldi dell’opera comica di fine secolo: Il matrimonio segreto e, curiosamente, Il maestro di cappella, cantata comica per baritono e orchestra attribuita al musicista aversano ma che in realtà non fu composta da lui. In realtà, il nostro aversano compose più di 65 opere e una sterminata quantità di musica sacra. D.: Qualcosa di più sulla sua biografia? Per fortuna, grazie agli strumenti tecnologici disponibili oggi, non è più così complicato riuscire a trovare informazioni relative alla sua biografia. Wikipedia, ad esempio, ha dedicato una pagina piuttosto strutturata alla biografia del musicista; ma anche molte altre risorse online ne riportano dati interessanti. Certo, le informazioni reperibili in rete sono piuttosto generaliste e sono destinate al grande pubblico, senza alcuna pretesa scientifica. Ma anche gli studi di settore, più difficilmente reperibili, non mancano. Negli ultimi decenni, oltre a me, anche altri musicologi si sono dedicati a studi su Cimarosa, compositore per molti aspetti ancora sconosciuto e sulla cui biografia ancora molti aspetti devono essere chiariti. Il musicista fu considerato, quando era in vita, uno tra i più celebri e fortunati della sua generazione, osannato da pubblico e da corti di tutta Europa, tanto da alimentare, dopo la sua morte, una quasi immediata idealizzazione del personaggio. La letteratura a lui dedicata a partire dalla seconda metà dell’Ottocento tende a tratteggiare Cimarosa quasi come un’icona insuperabile, intorno alla quale si costruirono molte leggende, che è necessario sfatare, per aumentarne esponenzialmente tutta la carica fascinosa e mitica (per non dire mitologica). Il compositore venne dipinto – con un fondo di verità – come l’ultimo grande esponente della cosiddetta Scuola Napoletana, la cui produzione ed estetica era espressione diretta, autentica e immediata del gusto di fine secolo. Per questo motivo, nell’Ottocento, Cimarosa apparve come l’ideale rappresentante di un’epoca finita, di un gusto musicale elegante, ma ormai inevitabilmente mutato; una sorta, appunto, di monumento, potremmo dire, dei “bei tempi andati”. Ma non fu esattamente così. E’ proprio questa patina romantica che andrebbe, almeno in gran parte, rimossa per penetrare in maniera più scientifica nell’estetica non solo dell’uomo Cimarosa (e, ben inteso, dell’artista Cimarosa), ma di tutta l’epoca e il contesto storico all’interno del quale egli operò. D.: Potrebbe raccontarci quali sono le leggende che si sono diffuse e che probabilmente andrebbero criticamente rivalutate. Mi limito a segnalarne due: il famoso bis integrale richiesto dall’Imperatore Leopoldo a Vienna dopo la prima rappresentazione de Il matrimonio segreto da eseguirsi, sempre per imperial richiesta, dopo una lauta cena offerta agli interpreti, ma comunque la stessa sera del debutto. Piuttosto improbabile: innanzitutto in considerazione del fatto che, sommando i tempi dell’esecuzione dell’opera, dell’eventuale cena e del bis integrale, si sarebbe dovuti uscire da teatro intorno alle 5 di mattina, dopo quasi otto/dieci ore. In più, nessuna fonte dell’epoca (le gazzette, in particolar modo), riporta un avvenimento tanto curioso: nelle gazzette si fa cenno al grande successo che l’opera ebbe, questo sì, ma non del fantomatico bis. In più, è quasi accertato che l’imperatore non fu presente la sera del debutto dell’opera, per impegni politici più urgenti; si recò a teatro solo la seconda sera e fu lì che ebbe l’occasione di fruire del lavoro. Il secondo aneddoto, che se ne porta dietro poi molti altri, è relativo alla convinta e diretta partecipazione di Cimarosa alla cosiddetta Rivoluzione Napoletana del 1799. La quale, poi, detto tra noi, proprio rivoluzione in senso stretto non fu, dato che fu organizzata e fomentata più dalla borghesia filo-francese che dal popolo. Certo, il compositore scrisse l’Inno per la neonata Repubblica, fu messo in carcere al ritorno dei Borboni e, una volta liberato dalle patrie galere, si spostò a Venezia per comporre la sua ultima opera, Artemisia. Ma cosa successe davvero al musicista durante quel periodo sicuramente tormentato della propria esistenza, non è mai stato sufficientemente chiarito. Sicuramente non morì per avvelenamento, come invece si cominciò a vociferare, come certamente non fu costretto all’esilio veneziano dai Borboni. Il re di Napoli, questo sì, tolse qualsiasi carica ufficiale al musicista, ma non lo condannò per editto all’esilio; il maestro, semplicemente, non avendo più lavoro a Napoli, accettò una commissione per il teatro “La Fenice” di Venezia, città per la quale, anni addietro, aveva già trionfalmente composto diverse opere buffa e nella quale aveva anche insegnato presso il conservatorio delle Virtuose Figlie, detto l’Ospedaletto.
D.: Cimarosa, come ha già accennato, quindi, fu un compositore molto famoso durante gli anni della propria attività. Perché? Quali sono le caratteristiche della sua musica che lo reso così celebre?
Pur essendo quasi contemporaneo di Mozart, il musicista aversano fu molto più celebre e pagato del geniale collega austriaco. Questo, naturalmente, non inficia il talento inarrivabile del musicista salisburghese, che, però, fu riconosciuto più nell’Ottocento che in vita. L’Italia, e soprattutto Napoli, grazie ai suoi quattro Conservatori, sfornava da più di un secolo compositori e cantanti di grande talento e preparazione che vennero ricercati e assunti non solo dai teatri della penisola, ma anche all’estero. Cimarosa fu uno di questi. Anzi, insieme a Giovanni Paisiello, di Cimarosa più anziano, fu il compositore più rappresentato e richiesto in senso assoluto. Subito dopo questi due giganti, però, altri eminenti musicisti quali Pasquale Anfossi, Pietro Alessando Gugliemi, Giacomo Tritto, ad esempio, godevano di grande fama. Il segreto di Cimarosa e del suo successo è probabilmente dovuto al fatto che, come tutti i più grandi compositori d’opera anche cronologicamente a lui posteriori (Rossini, Verdi, Puccini…), fossero straordinari uomini di teatro. Per comporre le musiche di un’opera, non basta essere eccellenti musicisti: certo, la base tecnica di partenza è fondamentale (tutti compositori e cantanti che si formavano nei Conservatori napoletani erano dotati di una solida cultura e di una competenza tecnica impeccabile), così come fondamentale era l’intuito musicale. Ma non si scrivono opere di successo con questi due soli elementi. Oltre a essere musicisti preparati e dotati, è necessario essere uomini di grande esperienza e pratica teatrale. Un po’ come avviene oggi per i compositori di musiche per il cinema: l’aderenza al film, una specifica drammaturgia filmico/musicale è essenziale nella colonna musica. Non è assolutamente detto, ad esempio, che una musica per film che si possa piacevolmente ascoltare da sola in cd, sia poi efficace per il film stesso. Anzi, spesso succede l’esatto opposto. Se la musica per il cinema vive anche da sola, senza l’ausilio delle immagini, può essere un valore aggiunto; ma nulla di più. Ciò che è richiesto a una buona colonna musica, per essere tale, è una propria specificità drammaturgica che si compenetri, anche in alcuni casi per contrasto, al film. Stessa cosa per un’opera. Cimarosa aveva la capacità di rendere vivi i libretti delle opere per le quali componeva la musica. Musicista assai lontano da qualsiasi velleità intellettuale, fu un uomo di teatro di grandissima levatura. Una levatura tale che in molti casi, lo rese un riformatore delle forme codificate tipiche delle strutture musicali dell’epoca, senza, probabilmente, che egli se ne rendesse conto. Tutti gli spunti drammaturgici, anche sottesi, che i libretti offrivano al musicista, erano sempre prontamente colti e davano la possibilità a Cimarosa di inventarsi, con la musica, situazioni che fossero teatrali e musicali al tempo stesso. Questo piaceva al pubblico: un certo didascalismo, tipico dell’epoca, la creazione di momenti musicali comici – spesso “proto-registici”, ma anche i momenti di ampio lirismo di cui il maestro napoletano non era mai parco.
D. Per concludere, Maestro, ha oggi una valenza culturale riportare alla luce opere così lontane nel tempo?
Assolutamente sì. L’opera buffa era musica composta per il popolo e al popolo deve ritornare. La società di oggi, così furiosamente capitalista, ha dimenticato – o pare dimenticare – la funzione reale che il teatro (e, quindi, anche l’opera) dovrebbe avere: prendere il popolo per mano, farne crescere la coscienza e, perché no, divertirlo in maniera appropriata. L’opera buffa è, ripeto, espressione del popolo meno agiato e più sfruttato, di quella che oggi potremmo quasi definire classe operaia; e oggi, proprio come allora - pur nella consapevolezza di cicli storici differenti - dovrebbe coadiuvare proprio quella sezione di popolo a riappropriarsi della propria coscienza di classe. Nelle opere buffe di Cimarosa ci sono nobili e borghesi costantemente messi alla berlina (certo, in maniera bonaria… Ma era un’epoca diversa dalla nostra). I personaggi che muovono l’azione e che, in qualche modo, rappresentano il motore e l’intelligenza che quel motore drammaturgico fa muovere, sono quelli della classe sociale economicamente meno agiata e, per questo, più battagliera. L’opera comica potrebbe ancora insegnarci tante cose, divertendo pure: senza una presa di coscienza della propria classe – allora come oggi – ci si confonde, si perde la propria identità di classe e si rischia di essere, come di fatto oggi avviene, schiacciati dai poteri forti e da sfruttatori del lavoro umano. La musica, il teatro, la lettura, alimentano sempre il senso critico dell’individuo e della classe cui è necessario percepire di appartenere. Il teatro dovrebbe farsi portavoce (e amplificatore al tempo stesso) di tale esigenza: solo così si cambia una società che mi pare, oggi, a una deriva pericolosissima, dovuta a un capitalismo scellerato col quale non si deve scendere a patti, ma solo eliminarlo per promuovere una società alternativa.