Umberto Galimberti è un filosofo molto amato dal grande pubblico e non ha bisogno di lunghe presentazioni. È nota, quando si parla di filosofi, l’immagine di Talete di Mileto – comunemente considerato come il primo filosofo – che durante una passeggiata, guardando in su e studiando gli astri, cadde in un pozzo: immediatamente una servetta spiritosa giunse a canzonarlo obiettandogli che nella sua voglia di sapere le cose che sono in cielo, gli sfuggivano quelle dietro ai piedi. Il Prof. Galimberti è l’esatto opposto di questo esempio paradigmatico: sottrargli venti minuti è difficilissimo per la cospicua mole dei suoi impegni, tant’è che mentre parlava con noi era pronto ad intervenire in diretta televisiva, e intorno a sé non aveva di certo delle servette pronte a deriderlo.
Teniamo a ringraziarlo per l’enorme cortesia e disponibilità dimostrataci.
Professore, come Lei più volte sottolinea all’interno dei suoi lavori, il mondo odierno è sempre più governato dalla tecnica. Paradossalmente, più gli apparati tecnici tendono a sedimentarsi, più sembra schiudersi il bisogno di fare filosofia. C’è una qualche relazione in tutto questo?
La relazione consiste nel fatto che la filosofia non è un sapere, ma un atteggiamento critico. Questo da quando Socrate l’ha impostata in tale maniera, cioè attraverso la problematizzazione dell’ovvio, del senso comune, delle affermazioni che si fanno sulla base di un’autorità. Lo sguardo della filosofia è critico nei confronti del mondo. A proposito dell’età della tecnica, mentre tutti sono entusiasti dei ritrovati tecnici, la filosofia deve chiedersi se questo entusiasmo è legittimo e quali siano i problemi connessi a questa situazione.
Avevano ragione Adorno e Horkheimer a denunciare il pericolo di un graduale impoverimento del pensiero e quindi del linguaggio ad esso connesso? Pare sempre più difficile parlare “parole altre”…
Certo, e qui contribuiscono tutti i processi informatici, compresi i social network che distruggono il linguaggio, lo accorciano, lo riducono a sigle. Nel 1976 Tullio de Mauri, grande linguista, aveva fatto un sondaggio in cui controllava il numero di parole conosciute da un ginnasiale: il risultato pervenuto era che il ginnasiale conosceva 1600 parole. L’ha ripetuto nel 1996 e il ginnasiale era arrivato a conoscere 640 parole. Oggi, secondo me, ne conosce solo 200. Ormai con una sola parola volgare, quella che conoscono tutti, si esprime la gioia, il dolore, la felicità, la sfortuna, insomma qualsiasi cosa! Come diceva Heidegger: il linguaggio non è uno strumento nelle mani del pensiero, bensì il pensiero pensa in base alle parole che si possiedono. L’impoverimento del linguaggio è impoverimento del pensiero. E questa è una catastrofe.
Talvolta i grandi scrittori di aforismi – penso a Dávila, Cioran o Nietzsche – sono considerati come i precursori di questa semplificazione espressiva, quella dei social network…
Ma noi non siamo all’altezza degli autori citati: rischiamo di non capirli se li leggiamo. Di questo incolpo la scuola che non ha insegnato ai giovani a leggere. In una classe solitamente si contano uno o due lettori.
A proposito di scuola, Lei ha insegnato per molti anni, prima nei licei e poi all’università: è un pericolo che gli educatori oggi vogliano mettersi sullo stesso piano dei loro allievi? Non crede ci sia bisogno di una maggiore autorevolezza?
Ho insegnato anche nelle scuole medie, nelle magistrali e negli istituti tecnici: ho fatto tutto l’ordine delle scuole. Gli educatori fanno le scimmie dei genitori; siccome i genitori hanno deciso di diventare amici dei figli – in perfetta deficienza perché i figli se li trovano da soli gli amici – così anche gli insegnanti fanno la stessa operazione. Mentre i giovani, quelli delle scuole medie inferiori o superiori, hanno grande bisogno di autorità e la concedono a chi è autorevole, non a chi è repressivo o verso chi hanno paura. I giovani desiderano l’autorità ma hanno bisogno di chi la rappresenti per bene, quindi tutte le formule di amicizia non funzionano. Io ho insegnato a lungo e non sono mai uscito con i miei studenti a mangiare la pizza, perché altrimenti, in quel momento, non ero più dio. Si sa, Dio ha successo perché nessuno lo ha mai visto.
Lei mi parla di Dio, allora le chiedo: Martin Heidegger, di cui Lei si è occupato in modo preponderante all’interno di un’opera il cui titolo ha un sapore spengleriano, “Il tramonto dell’occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers”, sostiene che il nostro sia il tempo della povertà, dove non si riconosce più la mancanza di Dio come mancanza. È proprio così?
Sì, Heidegger parla esattamente di povertà estrema, dürtfiger Zeit. La mancanza di Dio è una costatazione. Heidegger fa una operazione intelligente: non si sta a chiedere se Dio esiste o non esiste, si chiede se Dio fa mondo o non fa mondo, se è presente o è assente. Non è interessante che le cose ci siano o non ci siano, semplicemente se la gente crede che ci siano. Questo genera un mondo! Per esempio, io sono del parere che la libertà non esista, ma siccome tutti pensano che esista allora automaticamente l’idea di libertà fa mondo. Se mi riferisco al medioevo: la letteratura parla di Inferno Purgatorio e Paradiso, l’arte è arte sacra, perfino la donna è donna angelo: in questo modo, se tolgo la parola Dio dal medioevo non capisco nulla di quell’epoca, se la tolgo dal mondo contemporaneo lo capisco comunque benissimo. Non lo capirei se togliessi la parola tecnica o la parola denaro. Quindi adesso Dio è assente perché non fa più mondo.
Nella sua ultima fatica, “La parola ai giovani”, ha voluto dare voce ai ragazzi. Crede che in un’epoca dove si parla continuamente di “dialogo” e in cui sono massicciamente presenti le telecomunicazioni di massa, i giovani siano comunque poco ascoltati?
I giovani non li ascolta nessuno: parlano tutti di giovani ma non li ascoltano mai. Il senso di quel libro era proprio quello di sentire cos’hanno da dire. Attenzione: in quel libro parlano una minoranza di giovani, quelli che mi hanno scritto, e tra loro forse i più intelligenti. Almeno a giudicare dalle lettere redatte molto bene, meglio dei loro professori. C’è da credere che siano una minoranza, ma questa minoranza viene fuori con uno spaccato interessante; anzitutto con un’ironia pazzesca. L’autoironia è la precondizione della tolleranza. È importante che ognuno tratti le proprie idee come idee possibili e non come dei dogmi. Sono inoltre giovani che non parlano con i loro genitori o con gli insegnanti, non perché li disprezzino, ma perché ipotizzano di conoscere già le loro risposte. Allora la parola del genitore o dell’insegnante non la cercano neanche. Non hanno una grande stima dei loro genitori perché questi adottano come unici valori il denaro e l’immagine. Loro invece poggiano su valori robusti: per esempio, non sono razzisti o magari rimproverano i genitori di guardare con indifferenza alla guerra mostrata in televisione, senza coglierne l’atrocità. Questi genitori si interessano solo alla prossimità delle cose che gli succedono da vicino, trascurando tutto quanto accade nel mondo. Alcuni ragazzi deplorano il fatto che la tortura sia stata eliminata semplicemente perché non dava i risultati previsti: proprio da lì capiscono che il nostro mondo funziona solo sulla base dei risultati, e non in sé. Come se la tortura non fosse un male in sé!
Questi ragazzi sono nichilisti attivi; non misconoscono di essere in una realtà nichilista, ma non si rassegnano come invece sembrava ad inizio secolo, in cui erano convinti del fatto che il futuro non avesse prospettive. Si spronano a darsi da fare lo stesso, dal momento che il futuro sarà comunque loro. Per ragioni biologiche, almeno.
Per quanto investe l’attualità politica: si parla spesso di una fetta di gioventù che impiega le proprie forze militando in gruppi di estrema sinistra o estrema destra. Crede siano infatuazioni giovanili superficiali oppure i giovani stanno ricercando un ruolo da protagonisti nella società?
Ti confesso, coloro che mi hanno scritto non hanno mai parlato di politica. Infatti, ero convinto che non gliene importasse niente… e una certa ragione ci sarebbe. Ad ogni modo, ci sarà sicuramente una fetta di giovani che milita. L’importante è che poi la politica non la vadano a cercare agli estremi dell’arco costituzionale, dove diventa tutto più pericoloso e non più dialogico ma violento. Purtroppo oggi la politica non è più il luogo della decisione e non lo è nemmeno l’economia, perché essa investe là dove ci sono risorse tecnologiche. Il risultato finale è che la tecnica è il vero luogo della decisione. Ma essa decide a prescindere dall’umano, punta solo all’auto-potenziamento. La tecnica si sviluppa, non progredisce: il progresso, infatti, prevede ci sia un miglioramento delle condizioni umane
Di fronte a questo dominio tecnico che ruolo ha l’amore? È il nostro un “tempo per amare”?
L’amore è la condizione della vita. È inconcepibile una vita senza l’amore. Freud l’ha detto con estrema chiarezza, o l’amore o la morte, Eros o Thanatos. Si vive finché ci sono esperienze d’amore. Non importa quante, l’importante è che siano belle, serie, profonde, totali. Il libro più grande sull’amore è il “Simposio” di Platone, ma qui non posso fare una conferenza a riguardo. Platone dice che con l’amore raggiungo la mia follia, per cui entrando in una storia d’amore il mio Io affoga in questa follia. Che la storia finisca bene o male il mio Io ne è rinnovato, e più si rinnova e più continua a vivere. Parlo di Io in termini psicologici, Platone parlerebbe di razionalità o cose di questo genere. Ovviamente non si parla di amore cristiano, carità, dedizione al prossimo. Quello è agape. Quando dico amore parlo di Io e tu: i Greci oltre al singolare e plurale avevano il duale. Il dialogo duale è denso, simbolico, ha uno spessore pazzesco, mentre è sufficiente che tra due persone arrivi un terzo ed è già una popolazione.
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