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Musica
ENRICO NADAI-SE IL CONSUMISMO S'E' MANGIATO ANCHE LA MUSICA...
Se dicessimo a qualcuno che oggi la musica è scomparsa gli daremmo buone ragioni di pensare che siamo impazziti. Ma si regga il peso del paradosso: la musica è scomparsa dopo essersi fatta totale. Tra coloro che se ne resero conto ci fu Thomas Bernhard. Nel 1985, nell’opera “Antichi Maestri”, l’autore austriaco scriveva che l’ascolto della musica non è più un fatto eccezionale giacché la si trova in qualunque posto. Si è costretti ad ascoltarla al supermercato, negli ambulatori medici o ad ogni angolo di strada. Sottrarsene, anche lo si volesse, è difficilissimo per chi non abbia intenzione di tapparsi i condotti uditivi. Il sottofondo musicale, la cosiddetta muzak, è la tomba della musica, la sua banalizzazione, la sua riduzione al quotidiano. Bisogna sfogliare almeno qualche pagina del libro di Bernhard per lasciarsi sedurre (e turbare) da affermazioni quali: «l’industria musicale ha ormai gli uomini sulla coscienza». Concluso l’antipasto bernhardiano, si prenda tra le mani “La scomparsa della musica. Musicologia col martello” (NovaEuropa Edizioni, 2019) di Antonello e Renzo Cresti (no, non c’è alcun legame di parentela tra i due!). Vi sono ribadite molte delle stroncature che rendono la lettura di “Antichi Maestri” un’esperienza epurativa, per salutisti della musica. I due musicologi sanno quanto sia difficile resistere alla messa in loop del reggaeton, del pop latino e dei tormentoni che non durano più di un mese, specialmente nel periodo estivo. A pagina 45 del libro vi si legge: «L’(in)civiltà dei consumi richiede una musica gastronomica, esalta la sola funzione ludica, una musica intesa come passatempo, come riempimento degli spazi vuoti della mente e del cuore». È la musica che scorre senza lasciare segni, “liquida”, come suggerisce l’espressione accademica e baumaniana usata dagli autori. E, poiché tutti i nodi vengono al pettine, la riflessione musicologica coglie quello che nel discorso di Bernhard restava implicito, ma che regge l’intera tesi dello scritto/intervista dei due Cresti: la musica a noi cara è quella dell’inciviltà dei consumi, accompagnata dal supporto immancabile dell’immagine. Negli anni Ottanta, ricordano gli autori, si cantava “Video killed the radio star”, il video ha ucciso le star radiofoniche. E oggi, sempre di più, accanto al cantante deve esserci il suo “personaggio”, affinché non sia solo la musica ad essere fruibile ma anche la persona facilmente spendibile nei contesti di diffusione mediatica. Va da sé che, per qualche arcano motivo, i soli artisti acclamati oggi dal grande pubblico siano tutti tatuati fino al collo, quando non anche in viso, quasi avessero scambiato il corpo come una continuazione della loro arte con altri mezzi. Quello di sperperare quantità assurde di quattrini per riempire il proprio corpo d’inchiostro è un costume diffuso, conviene però spendere di meno, incivilire i propri consumi (e così anche i propri costumi) acquistando il libro dei Cresti, i quali, facendo musicologia con il martello, propongono una via di fuga dal conformismo. Sarà sufficiente trovare il “punctum” – come lo chiamava Roland Barthes – nella musica: ossia quel piccolo dettaglio che apre ad un nucleo di senso che d’acchito sembrava sfuggirci. Quel senso che è fuga dal livellamento e lume contro la piaga della degenerazione musicale.
(EN, L’Azione, 01/08/19)
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