Il recente saggio di Pierfranco Bruni “Kafka e la verità tragica” ( Solfanelli , Chieti, 2024), (presentato a RAI 1 Uno Mattina) inaugura più che degnamente le celebrazioni per il centenario della morte del grande narratore praghese.
“Ogni libro resta incompiuto, soprattutto il mio”, osserva nell’introduzione il Nostro.
E il suo saggio, che si conclude con un capitolo intitolato “Incompiutezza”, sottolinea fin dall’inizio quella che è la principale caratteristica comune dei due scrittori.
Del resto questo saggio di Pierfranco Bruni si potrebbe definire una immersione dell’anima solitaria nelle fantasmagorie di una interiorità che si riconosce nell’incontro con l’universo kafkiano.
Il Nostro giustamente osserva: “Soltanto in questa temperie metafisica si può intraprendere un viaggio senza timori”.
E richiama molto opportunamente quanto annotava Italo Alighiero Chiusano: “… c’è in Kafka una nota più peculiare. Forse il dono di una speranza tanto più efficace quanto più accuratamente sepolta, di una pulizia morale che abbaglia proprio perchè operata con voce spenta e in assoluta umiltà, di un’intelligenza tese fin quasi a spezzarsi, ma in questo rischio vibrante e lucuda come acciaio”.
Non si può dire meglio.
Chiusano, il grande germanista, che già in Storia del teatro tedesco, a proposito di Il custode della cripta, aveva parlato del «metafisico, mistico conforto che irradiano le sue visioni, anche le più desolate», in Altre lune, nel suo saggio sul volume fotografico di Klaus Wagenbach, intitolato non a caso Guardare Kafka, scrive: «Vedete tutta questa roba, tutte queste persone? In verità vi dico, nulla di tutto questo, nessuno di tutti costoro andrà perduto. In un serbatoio metafisico misterioso, tutto ciò vive ancora, vivrà in eterno».
Guardare Kafka è come attingere a un serbatoio metafisico.
Come per la Genesi così anche per Kafka Dio è superiore all’ordine del creato. Egli può far nascere un figlio da Sara, come poi da Elisabetta, poiché nulla è impossibile a lui.
Chi altro, se non Dio, può dire a un prigioniero trasferito da una cella a un’altra: «Questo viene con me»?
Chi altro, se non Kafka, come Pierfranco Bruni ben sottolinea, può dichiarare: “Anche se la salvezza non viene, voglio però esserne degno ad ogni momento”?
Kafka: il viaggio, l’esilio, la diaspora.
Questo è quanto si ricava dal saggio di Pierfranco Bruni.
E il riferimento inconfondibile è certo al “galuth” della tradizione ebraica ma è soprattutto alla condizione personale del nostro recensore.
Lo condizione dello scrittore tra il qui e l’altrove.
C’è una foto in cui Kafka, bambino di circa sei anni, appare stretto in un vestito striminzito, un po’ umiliante e strapieno di merletti, immerso in un paesaggio di serra. Sullo sfondo spuntano foglie di palma. E, come per rendere ancora più afosi e soffocanti quei tropici imbottiti, stringe nella mano sinistra un gigantesco cappello a falde larghe all’uso degli spagnoli. Occhi infinitamente tristi ispezionano il paesaggio che è stato loro destinato, il grande orecchio è teso in ascolto.
L’ardente desiderio di diventare un indiano, il richiamo dell’oltre che ritorna nelle pagine conclusive del romanzo americano, si è forse nutrito di questa infinita tristezza: «Oh, essere un indiano, sempre pronto, e sul cavallo in corsa, fendere l’aria, vibrare sempre di nuovo brevemente sul terreno che vibra, finché si lasciano gli speroni, poiché non ci sono speroni, finché si gettano le briglie, poiché non ci sono briglie, e non si vede più che la campagna davanti a sé come una landa pelata, già senza il collo e senza la testa del cavallo».
Già in una lettera a Oscar Pollak il 24 agosto 1902, informandolo che era stato lì lo zio di Madrid, Kafka si chiedeva «se non potesse condurmi da qualche parte dove finalmente potessi mettermi all’opera».
Pochi mesi dopo, il 20 dicembre, di ritorno da Monaco, dove aveva seguito il suo compagno Paul Kish, allo stesso Pollak scriveva: «Praga non molla, non molla noi due, questa mammina ha gli artigli».
Quindi, nella lettera a Max Brod datata metà agosto 1907, dopo aver descritto la sua consueta routine quotidiana osservando che, per contro, c’era «il negozio e la consolazione, la sera», con il che intendeva la consolazione della creazione letteraria, aggiungeva «Oh, se si diventasse felici soltanto con la consolazione e non ci volesse anche un po’ di felicità per essere felici!» e concludeva: «Ora […] imparerò, accanto all’inglese e al francese, anche lo spagnolo […] Mio zio dovrebbe procurarci un posto in Spagna, o andremmo nell’America del sud o nelle Azzorre, a Madera».
Dal momento in cui decide di recarsi con la sorella Elli sul Baltico, a Müritz, qualcosa cambia ancora nella vita di Kafka.
Muritz, il mare e i bambini, quei bambini ebrei, come se fosse a Tel Aviv, il piacere di festeggiare con loro, per la prima volta, la sera del venerdì, e l’incontro con Dora.
Proprio quella sera, in cucina, osservando una ragazza poco più che ventenne, capelli crespi, occhi grigio-azzurri, che stava sventrando dei pesci, aveva esclamato contrariato: «Che lavoro sanguinoso per mani così delicate!».
Così era iniziata la sua conoscenza di quella che, per il poco tempo che ancora gli rimaneva da vivere, sarebbe stata la sua compagna.
Quello certo era un incontro voluto dal destino.
Dopo quell’incontro avrebbe finalmente trovato il coraggio di andare via da Praga e raggiungere Dora a Berlino.
Un perpetuo viaggio.
Vorrei concludere le mie considerazioni su quello che è saggio complesso e profondo, opera aperta che alterna ai brani del suo autore quelli di altri autorevoli recensori e dello stesso Kafka, citando quanto scrive in conclusione lo stesso Pierfranco Bruni: “Chi vuole realmente capire ciò che ho cercato di dire , forse senza ovvietà, legga il libro. Sono disposto a mettere tutto in discussione in un’altra vita, in quella immortale che non conosce, a mio avviso bonario, accuse, colpe e procedimenti. Solo in questa vita sono ammessi gli avvisi di garanzia”.
Sabino Caronia
Critico letterario e scrittore (Roma)