Per parlare di Camus tocca affrontare la mortalità e l’immortalità.
Si apre, dunque, un terreno impervio e spigoloso. Incedere con delicatezza e
decisione è possibile solo attraverso un sentire distante ma penetrando e quasi
incarnando un comune sentire del divenire in destino. Ci riesce Pierfranco
Bruni nel volume “Camus, in solitudine di esilio” edito da Solfanelli editore.
Il titolo può essere, a mio parere, interpretabile con l’allontamento ricercato
di stereotipate ideologie cristallizzate in schemi sorpassati che più nulla
hanno da offrire e più non convincono l’uomo Camus che vede nella parola non
già uno strumento di comunicazione ma l’anima di un pensare oltre la cronaca. Un
passaggio importante del volume è dato nel capitolo che affianca e distanzia
Camus e Kafka. Oltre la tragicità, che di quella oggi non vi parlo, c’è il tramonto.
Tramontare è andare oltre, non solo guardare e interiorizzare il momento del
sole che va a riposare in un cielo che va a riposare oltre l’orizzonte nostro,
è un domandarsi se aldilà del tramonto siamo disposti a chiederci qual è, e se
c’è, la strada che porta oltre il bene e il male. Camus e Kafka hanno in comune
civiltà che annunciano la fine. Pierfranco Bruni riporta un passaggio de “La
peste” <
di Franca De Santis