"Una raccolta di saggi su un teatro diverso, che lei ha chiamato "nouvelle tragédie": a proposito, perché in francese?"
Devo correggerla: non su un teatro diverso ma sulla verità del teatro, che mi pare essere non tanto fraintesa, cosa che rappresenterebbe un sia pur claudicante passo in avanti (giacché in teatro non si può essere davvero fraintesi, né in buona né in cattiva fede), ma letteralmente sfigurata dall'ingerenza della sua spettacolarizzazione. Perché in francese? Per omaggiare Poincaré: disconosci te stesso, identifica un dentro e un fuori da te e delimitati come un'isola. Comunque vada, sarà teatro, senza dubbio alcuno.
"Il titolo del libro è un omaggio a Carmelo Bene che si disse apparso alla Madonna?"
Carmelo Bene non ha bisogno di essere omaggiato, Carmelo Bene è già un omaggio a sé stesso. Ringrazio tuttavia Giuseppe Manfridi che di me scrisse: «...tutto ciò che è cosa di Bene ruota nella costellazione di Andrea Rossetti».
"Cos'è il teatro per lei?"
L'essenza del teatro, la teatralità della cosa-teatro, come avrebbe detto il professor Heidegger, è la scena raccolta - ramazzata alla stregua di lanugine - nell'al di là della messa in scena, quando cioè la banalità temporale della rappresentazione in divenire si lascia tacitare dall'essere luogo del palco-osceno, vivaddio fine a sé stesso, svuotato soprattutto, ormai esangue dopo tanto furoreggiare di ginnastica drammaturgica e vocale. La quinta giusta, quella seria, armonica, è infatti sempre e da sempre disabitata.
Dopo la battaglia, sul campo, là dove i soldatini in divisa che si sono appena esibiti, muscolari eppure assimilabili a impressionistiche campiture floreali, non sono ormai che dei sopravvissuti alla spicciolata o dei cadaveri da spicciar via, passano alti nel cielo, vertiginosamente tornato limpido, gli uccelli migratori, i cercatori d'Africa: essi colgono al volo le anime dei morti e le mangiano, tra lenti battiti d'ali, senza fermarsi, quasi fossero frutti caduti dagli alberi immaginari del paradiso perduto; e tutti noi, sopravviventi alla disgrazia d'esserci, non possiamo fare altro che stupirci, stupirci molto, di quanto silenzio, dopo tanto strepito vanaglorioso, sia già ritornato. Ebbene, il teatro è esattamente il perimetro incalcolabile di quello stupore.
L'essenza del teatro non consiste nel far sembrare vero ciò che tutti sanno essere falso ma nel rivelare come falso ciò che tutti credono essere vero.
"Tutto molto colto e bello, ma in concreto?"
La concretezza è la morte dell'intelligenza e il cenotafio del genio. È un affare da geometri, da ragionieri: cosa minchia c'entra con l'arte?
In teatro la questione fondamentale non è fare scena ma uscire di scena: al centro non c'è nulla, il centro è centrale di per sé. Gli avvenimenti si possono rappresentare ma non ci si può rappresentare agli avvenimenti: in questo consiste la superiorità amorale del teatro sulla vita. Il teatro, in fondo, è tutto nell'apparire prepotente della sparizione di ogni cosa. Ciò che è creato dal nulla del silenzio del testo sul niente della solitudine della voce è teatro. Nel linguaggio non c'è niente, se non, ovunque, il nulla e, a loro tempo, i voli migratori della voce di ramo di luce in rovo di tenebra.
La drammaturgia è educazione. Ritengo che la poesia stia al teatro (come tutto, perché nulla può non-stare al teatro) in funzione anti-drammaturgica, quale irredenta e irredimibile maleducazione del testo.
"E la scrittura?"
La scrittura è la mistificazione della verità nella parola, giacché ciò che di quella rimane, la sua essenza grafica, non è della parola stessa che segno, alfabeto, grammatica, sintassi. Mancano la voce, il suono, l'origine, il verso, il teatro. Tutto è già epocale, inaugurato, scelto. La verità nella parola è sempre un istante prima, quando essa mostra sé stessa senza dire. La verità della parola è nel silenzio che la precede e nel suono che l'accompagna e in cui infine si perde, come nei melismi gregoriani e nei gorgheggi operistici mozartiani o rossiniani. Ciò che di solito si definisce scrittura creativa non è in realtà che la celebrazione notarile di un'autoreferenzialità più o meno ben concepita. La poesia è altro: essa non può prescindere dall'abbandono, dall'insipiente esuberanza di una deriva.
"In questo libro lei distingue l'attore dall'interprete."
Essere un attore non è come fare l'attore: chi fa "interpreta" l'essere come stare, laddove l'essere, invece, è e basta, e si "rappresenta" nella sparizione di ogni stato. Al centro di questa ricerca c'è un nucleo tragico di dolore che schiude la quinta perfetta e afferra infine l'ombra teatrale della vera poesia.
"Quindi un'arte tragica che si disconosce come arte drammatica."
Senza dubbio. Nella cosiddetta "arte drammatica" l'interprete si dedica alla psicologia dei personaggi. L'attore, invece, prende congedo dal mondo, dalla filologia, e scende nella terra, si lascia inumare tra le parole che echeggiano di rumore e di suono, mortalmente musicali. In questo sta il sacro, nulla di cui si possa essere in vena di fare spettacolo. L'azione dell'attore non è che pronome dimostrativo.
Un attore non recita, recitare è un mestiere per interpreti, un attore misura le parole e le dispone sul mondo. Per questo Franz Kafka è il più grande attore che abbia mai fatto lo scrittore, per questo non c'è sorriso al mondo che un attore non possa consolare.
"E in tutto questo il pubblico che ruolo ha?"
In teatro il pubblico recita la parte del niente mentre l'attore fa il nulla. L'attore deve sparire, dileguarsi, farsi fuori, può al massimo spacciare droga al botteghino. Purché si tolgano le poltrone dalla platea. Il pubblico non ha alcun diritto alla comodità, il pubblico deve recitare, deve faticare la sua parte, deve guadagnarsi il dovere di pagare il biglietto!
"La prefazione a questo libro è del critico Stefano Giovanardi, purtroppo scomparso."
L'ultima volta che incontrai Stefano Giovanardi fu a casa sua, vicino al Colosseo, e lui mi chiese perché non facessi più teatro. Gli risposi che dopo aver sepolto il titanismo romantico e mestierante dello sforzo mnemonico nella "lettura di scena", dopo aver sciolto nell'acido della "nouvelle tragédie" la prassi miserabile della replica, con tutta la sua cartellonistica approssimazione, dopo aver perfezionato nel "video-teatro" la riproducibilità tecnica ad libitum dell'eternità fuori-luogo della parola messa-in-opera (sempre rossinianamente buffa e mai lirica), spezzata al di là di qualsiasi interpretazione, la sola plausibile azione teatrica offerta ancora alla mia svogliatezza era portare fiori di poesia sulla tomba del teatro, dopo averne verificato e dimostrato, unico in questo insieme ad Antonin Artaud, l'essenziale impossibilità.
Ricordo che Stefano, dopo una breve pausa, che direi magistrale, mi rispose: "Beh, allora: whisky e sigaretta?"
Grandioso momento, quello sì, di teatro.
"Ha qualcosa da dire a coloro che leggeranno questo libro?"
Spero che agli sciagurati che hanno letto o che leggeranno "Sono sparito alla Madonna", libro nel quale ho cercato di fornire una bussola per raggiungere - giammai "capire"- la mia "nouvelle tragédie", possa essere ben chiaro che la tragedia non è mai drammatica. Che gli dèi vi scampino dal cadere in siffatta, penosa tautologia. Sarebbe come scambiare Faust per il giovane Werther: un'impudente leggerezza tutta letterale e letterata, quindi non letteraria. La tragedia è la tragedia, e basta. La tragicità della tragedia sta proprio nella sua strenua impossibilità di farsi drammatica.