Il 2022 si chiude come un anno dove tutte le categorie di investimenti (le così dette asset class) hanno visto una notevole contrazione. L’indice S&P 500, il più importante indicatore seguito dagli investitori americani chiude con una perdita intorno al 20%. Il NASDAQ, rappresentativo dei settori tecnologici e della new economy, ha perso addirittura oltre il 33% da inizio anno.
Evidente è stato anche la crescita dei rendimenti dei titoli di stato, i future dei Treasury Bond USA a dieci anni ha fatto un balzo del 129% da inizio anno con conseguente caduta del prezzo. Ricordiamoci però che se il rendimento sale allora il prezzo dell’obbligazione, quindi il valore del titolo, scende.
Sul fronte italiano non andiamo tanto meglio: il FTSE MIB ha perso oltre il 12% ed i nostri BTP a dieci anni hanno quasi quadruplicato i tassi con un incremento del 285%.
Qualsiasi strategia di investimento avessimo utilizzato quest’anno avrebbe portato a delle perdite marcate sui nostri capitali.
Ma questo fa parte del gioco, i mercati sono per definizione imprevedibili e nessuno, per quanto esperto, è in grado di fare delle previsioni attendibili.
Fa parte del gioco anche perché chi investe i propri capitali lo fa per cercare di incrementarli, quindi per trarne dei rendimenti. Ma sappiamo bene che i concetti di rischio e rendimento vanno sottobraccio: voglio maggiori rendimenti allora devo espormi a maggiori rischi e viceversa.
Il problema risiede da un’altra parte ed è grande come, o forse di più, un elefante dentro una stanza.
Parliamo degli elevati costi che gli investitori devono sostenere per i loro investimenti indipendentemente da come vada il mercato.
Investire non è gratis.
In particolare, questi costi assumono delle dimensioni ragguardevoli per chi ha seguito la strada della finanza tradizionale. Per finanza tradizionale intendo quel processo di investimento che parte nel momento in cui entro nella mia banca e un consulente della banca stessa mi propone di investire i miei capitali in qualche prodotto finanziario che ritiene possa fare al caso mio.
Molto spesso i prodotti di investimento che vengono proposti al cliente sono dei fondi che possono essere gestiti da società controllate dalla stessa banca oppure da dei loro partner commerciali a cui la banca fa da intermediario per il collocamento.
Investire in questo modo ha almeno un problema: i costi per il cliente sono molto elevati. Si parla infatti di spese per l’investitore che si aggirano tra il 3 ed oltre il 6% annuo del valore del suo capitale. In pratica se investo 100.000 euro di un fondo posso incorrere in spese annue anche di 6.000 euro solo per le commissioni e costi di gestione.
Se ci riflettiamo la cosa ha senso. Infatti questi fondi di investimento non sono altro che un paniere di prodotti finanziari semplici, chiamiamoli di base, come azioni, obbligazioni e altri fondi indicizzati a basso costo. Questi prodotti di base vengono “impacchettati” dalle società di gestione e rivenduti ai clienti.
L’impacchettamento costa molto perché deve coprire i costi di gestione delle società di investimento, gli stipendi, i premi dei manager, e così via. Ma questi sono spesso solo la metà degli oneri che dovrà supportare il cliente. Perché la restante parte, circa il 50%, è generalmente riservato alla banca per aver commercializzato il prodotto finanziario e per pagare le commissioni, molto spesso legate ai volumi di vendita, al suo consulente che ha proposto l’investimento al cliente.
Si può ben capire quanto l’elefante sia grande. È talmente grande che quasi la metà dei ricavi dei bilanci di molti istituti bancari provengono proprio dal collocamento dei prodotti finanziari.
Ad esempio, nel bilancio 2021 di Intesa San Paolo, il Conto Economico vedeva una ripartizione quasi alla pari tra i circa 5,4 miliardi di fatturato derivante dal collocamento titoli e la distribuzione di servizi di terzi e i 5,9 miliardi di margine di interesse, cioè la gestione dei conti correnti, mutui, prestiti ecc.
Nel bilancio 2021 di Unicredit i rapporti sono leggermente diversi ma nel complesso la situazione è analoga: sono state riportate 8,3 miliardi di commissioni di collocamento titoli e 9 miliardi di margine di interesse.
Quest’anno però la caduta dei mercati probabilmente esporrà in modo evidente questi costi ai clienti.
Infatti nei periodi di mercati al rialzo i profitti hanno aiutano molto i gestori a giustificare i costi così elevati. Nelle fasi Toro, di crescita dei mercati, al cliente sembra in qualche modo che stia pagando qualcuno che ha delle capacità superiori nel gestire e far crescere i suoi investimenti.
E’ nelle fasi di caduta dei mercati che emerge il problema. Infatti al momento della rendicontazione obbligatoria annuale come faranno i gestori a giustificare di aver fatto perdere al cliente oltre il 15-20% del capitale quando, proprio per evitarlo, gli vengono comunque pagate così generose commissioni?
Sembrerebbe proprio che saranno pochi i gestori che non rimarranno schiacciati almeno un po' dall’elefante. Anzi, probabilmente gli unici che si salveranno saranno quella sparuta minoranza che sono i Consulenti Finanziari Autonomi che non ricevono commissioni per il collocamento degli investimenti e quindi non hanno l’interesse a proporre prodotti costosi e poco redditizi per il cliente.
Come ama dire Warren Buffet, forse il più grande investitore del mondo che ha da sempre puntato il dito sugli scarsi risultati dei fondi di investimento: “Quando la marea scende, solo chi nuota senza costume si dovrebbe preoccupare”.
Giorgio Priori - Consulente Finanziario Autonomo
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