“Ogni piccola poesia che si scrive, anche poche parole distrattamente lasciate su un foglio, sono un’alleanza e una ricerca col senso nascosto delle cose. La storia di ognuno di noi diventa tangibile ogni volta che viene scritta, niente è veramente vissuto senza che il segno della scrittura porti l’esistenza ad una doppia esistenza.” – Emanuele Martinuzzi
La poesia è alleanza e ricerca, il poeta vive il mistero delle cose, della creazione, non solo della vita e del suo continuo tramutarsi ma anche della realizzazione dei pensieri. Le parole vengono pensate con coscienza oppure vengono udite? Che cos’è che spinge – talvolta con costrizione – a scrivere? Ad imbrattare la carta con segni a cui è stato dato significato?
Emanuele Martinuzzi si interroga sul bisogno di poesia percependolo come un’urgenza. “L’idioma del sale”, edito dalla casa editrice Nulla Die, è un amalgama di parole, coesione di piccole poesie tracciate su qualsiasi supporto, cartaceo o digitale, in momenti diversi della giornata. Frasi dell’immediato, sentite riecheggiare nella mente e trascritte senza alcuno scopo letterario che, invece, a distanza di anni, sono diventate pagine di una silloge poetica.
L’autore, classe 1981, ha conseguito una laurea in Filosofia a Firenze ma già in tenera età si è occupato, tramite la poesia, di indagine sull’essere umano percorrendo una strada solitaria di dialogo continuo.
“Nella pienezza del Non” (Ilmiolibro, 2010), “L’oltre quotidiano – liriche d’amore” (Carmignani editrice, 2015) “Di grazia cronica – elegie sul tempo” (Carmignani editrice, 2016) “Spiragli” (Ensemble, 2018) “Storie incompiute” (Porto Seguro editore, 2019) “Notturna gloria” (Robin edizioni, 2021) sono alcune delle sue precedenti pubblicazioni.
“Mi sono intromesso nell’ombra/ di una quercia trapassata/ in gergo popolare/ con il soffio missionario/ delle mie ipotesi di dolore,/ aspettando scrollasse/ dai suoi rami di realtà/ tutta la mia invisibile/ resina o paura della vita.”
A.M.: Salve Emanuele, l’anno scorso abbiamo presentato ai lettori “Notturna gloria” (Robin Edizioni), una raccolta di ventuno poesie associate ad altrettante illustrazioni del Maestro Gianni Calamassi. È stata una pubblicazione che ha avuto maggior “fortuna” nel pubblico dei lettori oppure in quello dei critici letterari?
Emanuele Martinuzzi: Ciao a tutti. Sembra passato molto più tempo. Sarà il periodo della pandemia che dilata e deforma il trascorrere dei mesi in modo innaturale. Comunque proprio in questi giorni ho ricevuto comunicazione che “Notturna gloria” ha ottenuto un ulteriore riconoscimento, la Menzione d’Onore al Premio Letterario Internazionale “Molteplici visioni d’amore – Cortona Città del Mondo”. Questo dopo aver già ottenuto il Premio Speciale della Giuria al Concorso San Domenichino dell’anno scorso. Sinceramente non mi aspettavo questi piacevoli e prestigiosi riscontri di apprezzamento. Mi è capitato poi di parlare con alcune persone che avevano letto la raccolta e che mi esprimevano le loro impressioni ed emozioni intense rispetto a quello che avevano fruito in questo lavoro illustrato. Quindi alla luce di questi esempi non saprei cosa rispondere esattamente. Direi che in modo imprevisto ha avuto buoni effetti sia sul pubblico dei lettori che su quello dei critici o degli addetti ai lavori. Sinceramente non me l’aspettavo, perché questa raccolta dal mio punto di vista rimane di non facile accesso e fruizione, sia per la natura criptica dei suoi contenuti, sia per le atmosfere che evoca nel loro lontano simbolismo. Infatti mi viene da pensare ancora, nonostante questi apprezzamenti, che non sia stata assimilata completamente nei suoi messaggi e nelle sue inattuali prospettive. Il fatto che sia un viaggio di discesa verso gli inferi di ciò che è in stato di abbandono, o distrutto dalla storia e dal tempo, nel suo essere violentemente innocente e inesorabile, oppure in ciò che è immaginario e abitante della sola fantasia, mi fa pensare che non possa e debba essere una lettura priva di ostacoli o barriere comunicative. La sofferta riflessione sul tempo cronico, distruttivo delle cose, delle civiltà e dei suoi valori, considerati come dati, scontati, spesso privi di una prospettiva storicistica che li renda relativi e non assoluti, credo sia in contraddizione rispetto a una moderna cultura, che invece tende a considerare e cristallizzare opinioni, giudizi e valori, privi di uno spessore storico, protesa più a cancellare l’evoluzione dei fenomeni nella storia, piuttosto che a farsi carico del loro essere mutevole, cioè legati a un determinato contesto socio culturale di riferimento. Questa raccolta è un viaggio che mostra come le rovine de tempo cancellano ogni cosa e emozione, rendono tutto ombra, però allo stesso tempo non cancellano la storia e la sua tormentata epopea, piuttosto ricercano attraverso la poesia, di riesumare ciò che c’è di eterno in questo continuo passaggio di costruzione e distruzione. Poesia e storicismo, simboli e rovine, fortuna e destino, vita e morte, spiritualità e silenzio.
A.M.: “L’idioma del sale” è il titolo della tua recente pubblicazione, “sale” compare nella silloge: nella citazione di apertura nella quale riporti i versi della lirica “Noi non sappiamo quale sortiremo” del poeta Eugenio Montale ed in due tue liriche, la prima cita “Naufrago in questa/ spiaggia senza vanità,/ nomade pausa, crampo/ nell’idioma del sale.” e la seconda più lunga di cui cito tre versi: “[…] In questa paralisi di ardore/ nessun racconto di sale/ più ci accompagna tra le zolle,/ […]”. Dal “sale greco” di Montale si passa all’“idioma del sale” ed al “nessun racconto di sale”. Quale concetto hai voluto indicare con il sale?
Emanuele Martinuzzi: “L’idioma del sale” è una raccolta che mette insieme le poesie, le frasi e le parole scritte, prima della pandemia, su fogli sparsi, quaderni, smartphone, pc, etc., ovunque insomma avessi modo di gettare nero su bianco la mia ispirazione del momento, i miei dubbi, la mia voglia di esprimermi in libertà. Una specie di diario poetico delle mie emozioni e pensieri, gioie e tormenti, alti e bassi, a dimostrazione che la poesia sa accompagnare tutti i momenti della vita, in qualsiasi frangente, e sa tradurre i suoi sentimenti, profondamente. Un grande poeta del passato Archibald MacLeish scriveva che “la poesia non deve significare ma essere”, infatti ogni volta che la poesia è, le cose si arricchiscono di nuovi significati, la realtà viene manifestata e liberata da convenzionali interpretazioni. La poesia è il sale della terra e dell’umanità, parafrasando il Vangelo, perché sa dare sapore e spessore ai vissuti, sa trasformare aridi momenti in nuove rinascite, sa trasfigurare le cose per mostrarne i volti e significati nascosti. Le poesie sono piccoli grandi granelli di sale, messaggi dall’abisso di amore, pace e speranza, che si librano sopra le contraddizioni, le oscurità e le assurdità del mondo. Questo lavoro altro non è che un omaggio allo scrivere poesie, a farle entrare nella propria vita di tutti i giorni, comunque e ovunque, a fare questa cosa così apparentemente inattuale, ingenua, sublime, di affidare alle parole scritte il nostro sentire più inascoltato, fragile o misterioso. In questo caso, differentemente dal precedente lavoro di cui si parlava, questa raccolta diventa una testimonianza della mia storia personale, queste poesie o queste parole sono la testimonianza della mia relazione con l’atto dello scrivere e della mia scrittura con l’esistenza. Come il sale nell’Antico Testamento, nel Levitico, è citato come un mezzo simbolico che garantisce l’alleanza tra il popolo e il divino, così la poesia sancisce quel misterioso legame tra un essere chiamato all’esistenza e l’incognita della vita. Ogni piccola poesia che si scrive, anche poche parole distrattamente lasciate su un foglio, sono un’alleanza e una ricerca col senso nascosto delle cose. La storia di ognuno di noi diventa tangibile ogni volta che viene scritta, niente è veramente vissuto senza che il segno della scrittura porti l’esistenza ad una doppia esistenza. Così le cose, le emozioni e i vissuti acquistano quel sapore che sa di significato, senso, miracolo, sale. Inoltre il sale nell’impero romano era usato anche come elemento distruttivo, dopo aver annientato Cartagine, i romani sparsero il sale sul suolo della città al fine di renderlo sterile per sempre, così come nella Bibbia si racconta che abbia fatto Abimelech dopo aver espugnato la città di Sichem. La poesia in questo senso gettata sull’esistenza trasforma ciò che nel vissuto trattiene il nuovo, ciò che arresta l’evolversi inevitabile della storia e trasfigura queste rovine lasciando il posto affinché giunga la rinascita, il rinnovamento, l’illuminazione inscritta nel linguaggio. Quindi mi piaceva l’idea del sale perché queste comunque sono poesie scritte già per essere scarti, lasciate a casaccio nei fogli, il puro piacere della scrittura, l’abbandonarsi al mistero della vita attraverso i segni della poesia. Ciò che apparentemente è solo una parola che rimanda a un tuo sentire di un momento, che può essere considerato come insignificante, assurdo o inascoltato, in realtà è il sale della terra e della vita, l’essenza che la poesia custodisce e pronuncia per essere compresa, per dare il giusto peso e sapore alle piccole immense cose.
A.M.: Ogni parola, partendo dall’etimo e risalendo nella storia del suo utilizzo, ha una variegata ramificazione. Dal sale possiamo passare all’illusione: “Quello che resta dei miei occhi,/ disciolti al patibolo dell’illusione,/ […]”. La radice della parola illusione proviene dal latino ludere con il significato di “giocare”. Ombre/a è un altro vocabolo che si nota ne “L’idioma del sale”. Per non estendere troppo questa domanda citerò solo il verso in cui compare: “ombre intrise di ali”. Gli esseri umani hanno un rapporto particolare con l’ombra, ma il poeta in particolare ne esalta la sua esistenza, quasi che la sagoma nera sia la prova più evidente della luce. Il poeta è fortemente connesso all’oscurità come momento di massima ispirazione ed è proprio in questa condizione che si possono ammirare le stelle. Troviamo la parola “stelle/a” in alcuni passi della raccolta tra cui: “nella traversata di una stella verso l’umano”. Dall’ombra proiettata verso il basso, verso l’interno, la stella è ciò a cui tendiamo, ciò che sta in alto e ciò che luccica.
Emanuele Martinuzzi: Non solo l’etimologia di ogni parola che entra nella fitta trama di una poesia si mostra come un viaggio speleologico nei meandri delle sue forme e nella storia della sua evoluzione, ma anche il significato stesso di ogni parola non è più dato come stabile o univoco, come viene considerato quotidianamente nello scambio e nel dialogo tra persone. Ogni senso entra in quell’avventura affascinante che permette di vedere le varie sfumature possibili, le varie strade che ogni parola può prendere nel labirinto dei contenuti che la compongono, apertamente o anche in modo sibillino. E poi non è solo questo, non è un mero gioco linguistico, semmai più un gioco di ombre e di luce come nella caverna di Platone. La scrittura ti permette di creare un tuo universo di spirito e materia, instabile e cangiante come le tue emozioni, plasmando le ombre e la luce che le attraversano e che provengono da un non ben imprecisato altrove, che a volte assomiglia al mondo esterno, a volte agli abissi del tuo cuore e altre volte a un qualcosa di assoluto che abita l’esistenza. Chi scrive poesie in qualche modo crea nel vero senso della parola, perché come il Fanciullino pascoliano dona per la prima volta un nome alle cose e in questo modo crea le cose stesse, le sue cose, uniche e irripetibili, in quell’armonia miracolosa che è un animo umano, in questo suo specchio, ingiudicabile e bellissimo, composto di versi e silenzi. Leggere una poesia è abbracciare una sensibilità del tutto sconosciuta, scoprire una civiltà sepolta sotto alla forma delle parole e al suo senso più comune, per lasciarsi trasportare in prospettive e orizzonti desueti, fuori dalle proprie caverne, fuori nella luce della bellezza, della libertà, dell’umanità e del mistero. Il fatto che tutto questo non sia solo un’illusione, o un mero artificio, lo si sa osservando come la poesia sappia costruire emozioni di pace, sappia faci avvicinare al mistero con gentilezza, sappia svuotare le nostre pulsioni più distruttive in una catarsi creativa. La poesia è una stella da seguire per realizzare i propri desideri più fondamentali, che riguardano l’interiorità.
A.M.: Il poeta è fortemente connesso agli elementi del cosmo e della natura come momento di massima ispirazione, ma non è solo dalla contemplazione dell’universo che riesce a trarre fervore, egli infatti è connesso a tutta la produzione precedente di poesia. Quali sono i poeti che, nel corso degli anni, ti hanno emozionato maggiormente?
Emanuele Martinuzzi: Mi viene da pensare alle mie prime letture di adolescente. La mia scoperta dei simbolisti francesi fu davvero una rivoluzione copernicana per me e per il mio modo di intendere, non solo la scrittura della poesia, ma anche il rapporto di chi la ama e la scrive nei confronti del resto della cultura e della società, non solo in termini di opposizione o differenziazione, ma una via unica e contraria di ricerca e sperimentazione, anche personale, dei propri vissuti, che diventano parte integrante del fare poesia. Come non pensare alla poesia “L’albatro” di Charles Baudelaire dai suoi “I fiori del male” dove appunto canta il suo essere “esule sulla terra, al centro degli scherni,/ per le ali di gigante non riesce a camminare”. Un altro amore è stato Arthur Rimbaud, tutta la sua opera e la sua vita sono state illuminazioni poetiche, battelli ebbri di bellezza e alterità. Ovviamente sempre nel simbolismo francese “I canti di Maldoror” del Conte di Lautreamont, pseudonimo o nome reale di Isidore Ducasse, mi hanno traghettato nella crudeltà sublime di una poesia, lasciata libera di essere se stessa e diversa da sé. Potrei continuare con Mallarmé, Verlaine, Corbiere. Ovviamente non posso tralasciare l’ispirazione senza fine avuta dalle letture dei grandi della letteratura italiana come il simbolismo di Pascoli, il suo fanciullino eterno e creativo, i “Canti orfici” di Dino Campana, il suo folle errare senza meta con la sola destinazione della chimera poetica, gli immensi Montale, Ungaretti, Quasimodo, Luzi, che mi hanno davvero fatto scoprire continenti di poesia, in cui confluiscono oriente e occidente, passato e futuro, ermetismo e canzone, secolari tradizioni di poesia e biblioteche di emozione. Poi essendo un lettore molto discontinuo e curioso, ho davvero letto di tutto e di più in questi anni, tra i grandissimi e i minori, contemporanei o antiche voci, dagli haiku giapponesi alla poesia africana, dal classicismo alle avanguardie, dall’imagismo americano alle poesie dei migranti, dai Novissimi del gruppo ’63 alla Beat generation e potrei continuare ancora. Non c’è mai fine alla possibilità di scoprire qualcosa di nuovo nel passato, il passato in un certo senso è il nostro futuro, sono state scritte tante di quelle pagine di arte, poesia e letteratura, che possiamo veramente trovarci di fronte a qualche novità che non conoscevamo, tesoro pronto per essere scoperto e rivitalizzato. Detto questo spesso non ho una grande memoria e quindi molte cose lette sono state non proprio dimenticate, bensì direi metabolizzate dentro di me, la loro atmosfera evocativa è entrata a far parte del mio animo e della mia sensibilità. Poi dopo tante letture quello che penso è che anche quello che si vive sia in qualche modo letteratura, il discrimine tra la forma letteraria e la vita vera è molto labile. Nel bagaglio di esperienze che si fanno e che arricchiscono, con la gioia o la sofferenza, c’è un legame invisibile e misterioso con i versi che possiamo leggere degli autori sopracitati o anche altri. Alla fine i nomi della letteratura, le definizioni, i movimenti, le classificazioni e le etichette svaniscono per lasciare il posto alla bellezza e alla passione della quintessenza della poesia, che travalica i linguaggi e i vari universi di significato. Ungaretti non è più Ungaretti, ma un’emozione del nulla, che si traduce nella vita tra un fiore colto e l’altro donato, nello sbocciare di un attimo che illumina d’immenso la tua vita. Così vale per qualunque autore, grande o piccolo che sia, siamo tutti interconnessi, letteratura e vita, filosofia e poesia, conoscenza e ignoranza, tutto è un miracolo che contribuisce all’enigma dell’esistenza. Più procedo in questa passione della poesia e della scrittura, più abbandono un atteggiamento critico o intellettuale, che già non mi appartiene spontaneamente, per abbandonarmi, forse in modo ingenuo e naïf, all’avventura primordiale e bellissima di lasciare segni misteriosi sul foglio bianco, di viverli attraverso le esperienze della vita, tutti i giorni, nelle piccole grandi cose ed emozioni. Si potrebbe anche dire che più si ama la scrittura e più anche i momenti della vita in cui non si scrive, per una qualche ragione, sono anch’essi una forma del poetare. Anche se non scrivessi neanche più un verso, la poesia continuerebbe ad accompagnarmi con la sua ombra, sempre in ascolto e in attesa delle sue epifanie, continuerei a sfogliare gli attimi della vita osservandone con occhi nuovi i segni impressi.
A.M.: Qual è il target di pubblico de “L’idioma del sale”?
Emanuele Martinuzzi: Ogni poesia inserita in questa raccolta è stata pensata, ideata e scritta a casaccio come ho detto, non c’è una struttura comune o una tematica prevalente, sono emozioni e pensieri che seguono il flusso discontinuo delle mie emozioni e dei miei pensieri, ovunque capitasse di provarne e di osare poi a trasfigurarli in forma di poesia, senza nessuna volontà di pensarle e ordinarle in una raccolta, prima almeno che avessi l’idea qualche mese fa, un po’ per omaggiare la scrittura della poesia, la sua importanza in generale, per il piacere di pubblicare un libro, ma anche più semplicemente per ricordo. Una testimonianza per me di questo ultimo periodo di scrittura, uno spaccato del mio passato tradotto in poesia, che credo e spero possa parlare a chiunque, a chi ama la poesia, a chi non la conosce o apprezza molto o anche a chi la evita. Certamente alcune poesie possono sembrare oscure per il simbolismo e le immagini che sembrano nascondere più che svelare, lo sono anche per me visto che quando si scrive non sempre si è del tutto coscienti di ciò che la cosiddetta ispirazione ci sta regalando. Mi auguro però che chi abbia modo di leggerle provi ad abbandonare le naturali resistenze razionali e si affidi con ingenuità al senso non-senso della parola, le guardi come un bambino che osserva per la prima volta le cose e si chiede cosa vogliono dire, il loro perché, emozionandosi per le risposte che vengono alla mente. Scrivendo principalmente per passione in piena libertà, sinceramente non mi sono mai soffermato sul tipo di persone che possono apprezzare quello che scrivo. E poi la parola target è usata in ambito commerciale, ammesso che questo libro abbia una diffusione tale da poter fare questo tipo di valutazioni, non sono interessato comunque a considerare la poesia come una merce, almeno non come tutte le altre merci. Spero invece che possa spronare qualcuno a scrivere, poesia o prosa non importa, ma a scoprire il valore immateriale non consumabile e profondamente umano, di esprimere le proprie emozioni, i propri sentimenti, le proprie idee, anche soltanto a sé stessi, in un diario. Spero che i miei amici, poeti o non, abbiano modo di leggere questa raccolta e di confrontarmi con loro su cosa ne pensano. Alcuni l’hanno già fatto e non nascondo il piacere di condividere le impressioni, confrontarsi, leggersi a vicenda, con simpatia e leggerezza.
A.M.: In una tua intervista hai espresso il senso che dai alla “meraviglia” con: “Credo che la meraviglia faccia parte dell’umanità, della sua parte più fragile, misteriosa e creativa, in cui la ragione si abbandona al sogno, in cui l’infanzia viene custodita in tutta la sua mitologia e la sua creatività. In ogni epoca e in ogni persona c’è sempre un dialogo, uno scontro se non proprio una lotta tra le intenzioni della meraviglia e quelle del cinismo, del disincanto e della perdita dell’incanto con cui guardare alle cose.” La troviamo, come parola all’interno della raccolta “l’idioma del sale” in questi versi: “sull’abisso filtra la meraviglia”, o “l’ossario delle ultime meraviglie”. Possiamo dedurre che, anche in questa silloge, la meraviglia è per te contrapposta al funereo, all’abisso?
Emanuele Martinuzzi: Scrivere poesie è sempre una scommessa sulla meraviglia, l’incanto, il miracoloso rispetto al cinismo, i nichilismi e la fredda materia. Una scommessa conveniente come direbbe Pascal a proposito dell’esistenza divina, cioè conviene sempre rischiare qualcosa di finito, come la mera vita materiale, quando la posta in gioco è l’infinito, la bellezza e la poesia. Si tratta di un lavoro intenso quello di custodire un afflato infantile, innocente e aperto a meravigliarsi anche delle piccole cose, in modo da distillare dall’esperienza quella che può essere considerata come la quintessenza della poesia. Un verso nasce casualmente, o per destino, ma ci sono credo tutta una serie di condizioni interiori che permettono all’animo di elaborare i sentimenti e vissuti per poter costruire una frase che in modo misterioso li rispecchi. Per la filosofia greca antica la meraviglia è all’origine della conoscenza filosofica e sappiamo quale tipo di relazione ci sia tra il Mythos poetico e la sua evoluzione in Logos filosofico. Nella narrazione mitologica e poetica della realtà c’è sempre una componente discorsiva e razionale come nella conoscenza filosofica, e viceversa. La meraviglia ha bisogno della ragione e la ragione ha bisogno della meraviglia, perché la ragione non è un calcolo elementare e la meraviglia non è un’insensatezza. Entrambe si confrontano con semplicità con l’immensità che appartiene alla vita, ai suoi ideali, alle emozioni autentiche, alla spiritualità in senso più ampio possibile. Ogni uomo è un abisso, in cui finito e infinito si incontrano e scontrano, in cui vivono le contraddizioni e da cui si creano tutte le potenzialità. Mi ricordo che la poesia di cui parlavi nella domanda e che recita “sull’abisso filtra la meraviglia” mi è venuta in mente mentre ero seduto sul divano a riposare in montagna come molte altre volte, verso sera. La finestra era aperta e si intravedevano i monti fitti di boscaglia. Un’atmosfera vissuta altre volte. In quel silenzio, tutto a un tratto, si alza il vento che proviene dai boschi e un’anta della finestra aperta incomincia a oscillare, mentre cala l’imbrunire. Ecco in quel momento, questa situazione, ai miei occhi è stata vissuta come unica, c’era uno strano equilibrio tra silenzio e movimento, e con meraviglia quei luoghi così familiari, mi sembravano apparire nuovi, osservati e vissuti come per la prima volta. Da lì le parole sono venute da sole, traducendo in poesia questo sentire profondo, che riguardava la scrittura, il paesaggio, le cose e il mio animo, e lo scrivere ha potuto magicamente dare voce a questa estasi, composta da piccole grandi cose.
A.M.: Per il mese di maggio e per i seguenti mesi estivi hai già in mente delle presentazioni in presentia del libro?
Emanuele Martinuzzi: Non ho ancora programmato niente di preciso. Credo che mi lascerò trasportare dalle possibilità che verranno fuori. Sicuramente mi farebbe piacere partecipare a letture collettive o presentazioni in presenza, più che altro per leggere le poesie de L’idioma del sale e anche di Notturna gloria, ritrovare quella dimensione libera di condivisione, ascolto e riflessione. Leggere in pubblico mi emoziona sempre tanto e da un lato mi manca, è un modo di sentire prendere vita quello che si è scritto, avvertire le reazioni viscerali o ragionate degli ascoltatori, superando le barriere della propria riservatezza. È anche una specie di introspezione, scendere dentro se stessi, leggendo le parole che sono state trovate nel proprio animo in precedenza. Al di là degli eventi spero comunque di aver modo di leggere le mie poesie ad altre persone, anche in contesti esterni alla logica della presentazione o del reading. Leggere casualmente a qualcuno una propria poesia e donargli anche solo una piccola emozione o un pensiero nuovo è sempre un grande evento.
A.M.: Salutiamoci con una citazione…
Emanuele Martinuzzi: Vi saluto con la citazione che apre questa raccolta: “E un giorno queste parole senza rumore/ che teco educammo nutrite/ di stanchezze e di silenzi,/ parranno a un fraterno cuore/ sapide di sale greco.” (Eugenio Montale)
A.M.: Emanuele ti ringrazio per la spontaneità delle tue risposte, è stato un vero piacere colloquiare sul tuo nuovo libro a cui auguro di essere letto ed assorbito. Ti saluto con le parole di Blaise de Vigenère che nel suo “Trattato del fuoco e del sale” scrisse: “Cos’è il sale? Si chiese uno dei filosofi chimici. Una terra arsa e bruciata, e un’acqua congelata dal calore del fuoco potenziale racchiusovi. Il fuoco d’altro canto è l’operatore di quaggiù nelle opere d’arte, come il sole o fuoco celeste è in quelle della natura.”
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Fonte notizia
oubliettemagazine.com 2022 05 18 intervista-di-alessia-mocci-ad-emanuele-martinuzzi-vi-presentiamo-lidioma-del-sale