Milano, 30 aprile. Ulla Wobst incanta con la sua arte anche il pubblico italiano. La scorsa settimana il Tgcom24 le ha riservato uno spazio sulla piattaforma Arte in quarantena. Ed è stato un bel successo. Proprio a seguito di quest’evento, la pittrice ha rilasciato un’intervista per Spoleto Arte. Un’ottima occasione per scoprirne di più su chi raffigura la realtà di oggi come se si trattasse di una delle fiabe dei fratelli Grimm. E lo fa con uno stile affascinante.
Recentemente è uscito su Tgcom24 un servizio a lei dedicato per il format Arte in quarantena. Anche in Germania l’arte sta vivendo un periodo difficile in questi giorni?
Grazie anzitutto a Spoleto Arte, che mi ha proposto per lo splendido servizio “L’Arte in Quarantena” di TGCOM24, del quale sono molto grata.
Sì, purtroppo questo è un periodo molto difficile per la “specie a parte” che noi artisti rappresentiamo, indipendentemente dalla nostra nazionalità, dal genere o dalla
disciplina artistica. Tutti noi aneliamo al riconoscimento del pubblico, ci nutriamo delle emozioni di chi osserva, desideriamo una controparte con cui scambiare pensieri e sentimenti. Questo è l’elemento essenziale che accomuna l’umanità, secondo me. Il Covid-19 impone restrizioni che ledono questo desiderio fondamentale dell’essere umano.
Inoltre, per quanto riguarda la Germania, sia gli artisti che le istituzioni culturali quali i musei – che sono solitamente molto riservati – stanno iniziando ad alzare la voce a causa dei problemi finanziari che questa pandemia sta creando. Dall’11 di marzo, giorno in cui è iniziato l’isolamento sociale – nessuno ha più guadagnato nulla!
Le fiabe dei fratelli Grimm hanno profondamente influenzato il suo percorso. Che cosa l’affascina di più di queste storie?
Ciò che più mi affascina delle fiabe dei fratelli Grimm è la loro profonda intuizione dei meandri della psiche umana, e adoro lo stile metaforico in cui sono realizzate. Sono sempre stata stupita dal fatto che ci siano molte favole simili tra loro in varie culture in tutto il mondo, che hanno pressoché lo stesso contenuto. Questo suggerisce che si tratti di archetipi nel senso jungiano del termine: “immagini e motivi arcaici universali generati dal subconscio collettivo”. A questo proposito occorre menzionare che i fratelli Grimm non hanno inventato queste favole, ma le hanno raccolte dalla tradizione popolare, girovagando di villaggio in villaggio e collezionando testimonianze orali soprattutto da parte delle anziane “nonne” dei paesini. La loro collezione – che ha il sottotitolo Fiabe Popolari - è considerata parte del patrimonio culturale della letteratura tedesca.
Le sue opere catturano immediatamente l’attenzione per la dimensione onirica, magica, introspettiva. Che cosa vorrebbe che all’osservatore rimanesse impresso della sua arte come tratto distintivo?
Vorrei che lo spettatore osservasse il motivo e percepisse il messaggio senza pregiudizi, con lo sguardo curioso e innocente di un bambino, magari immedesimandosi nel messaggio stesso e trovando parallelismi con la propria esperienza personale. Le mie opere si prestano sempre a suggerire più di una singola interpretazione, a volte addirittura per me!
Nella sua produzione trova spazio anche l’inquietudine. Secondo lei, cosa mette più a disagio l’essere umano?
È vero che le mie opere a volte possono comunicare tristezza e impotenza psicologica, se questo è ciò che intende. Penso che il disagio dell’essere umano dipenda forse dalla mancanza di risonanza con l’Altro, dall’assenza di un riscontro profondo e sincero da parte della madre, ad esempio, del proprio partner, del pubblico, del proprio superiore al lavoro o di qualunque interlocutore la cui opinione abbia un valore per l’individuo.
C’è un soggetto o un’opera a cui è particolarmente affezionata?
Sono una grande appassionata del Teatro dell’Assurdo; amo specialmente Aspettando Godot di Samuel Beckett e Il Rinoceronte di Eugène Ionesco – che ho anche messo in scena quando insegnavo teatro. Entrambi questi drammaturghi hanno saputo catturare la commedia tragica dell’uomo moderno, alienato dal prossimo, da Dio, dalla natura e quel che è peggio perfino da se stesso. Adoro la maestria con cui entrambi gli autori sanno mostrare l‘insignificanza dell’individuo, la sua nullità e inettitudine, in modo così vessatorio ed emozionante.
Se dovesse dipingere questo periodo, che titolo gli darebbe?
Lo intitolerei Per Aspera ad Astra, per esprimere il mio segreto auspicio che questo orribile periodo ci conduca ad un mondo un pochino migliore da quello rappresentato dal Teatro dell’Assurdo.