“Cercavo un qualcosa che inquadrasse al meglio i temi presenti nella narrazione: l’arte, i soldi, il riciclaggio e dopo alcuni tentativi, “La cattiva arte”, “La mala e l’arte”, ecco l’idea: La Malarte”, spiega l’autrice.
“Nel mio scritto c’è Maddalena Cantarelli e Marco Gatti che sono i protagonisti. Maddalena è una ragazza italiana molto giovane che per uno strano gioco del destino si ritrova a lavorare in una galleria d’arte contemporanea a Vaduz. Marco è un fiduciario originario di Vicenza che lavora nel Principato del Liechtenstein e risiede a Lugano e nasconde, dietro la sua aria malinconica, un gelo e un’indifferenza alla vita e ai valori. È una persona con una pacatezza da far paura, di poche parole, nessuna discussione, decisionismo irremovibile, non un solo minuto perso in chiacchiere. Tra i due nasce una storia d’amore e sembrano essere due persone tanto dissimili. Ecco credo che Maddalena e Marco siano diversi a vederli così, dall’esterno, in fondo cosa ci fa un fiduciario corrotto fino al midollo e impantanato in loschi affari con una ragazza nata Siena, laureata in storia dell‘arte, acquarellista e illustratrice di riviste? Eppure Marco e Maddalena, dissimili nella forma, sono simili nella loro essenza. E poi c’è Anna Moos. la regina dell’arte e la proprietaria della galleria, dove Maddalena lavora. Anna ha un ruolo chiave all’interno della narrazione.”
«Quando arrivai a Vaduz, avevo otto anni, era il 1937 e qui, dove oggi vi è la zona pedonale, vi era solo una strada polverosa. Dove oggi c’è il museo, c’era un campo pieno di mucche e pecore. Quando i miei genitori si trasferirono qui da Berlino, io non sapevo bene del perché stessimo lasciando la Germania, eravamo sì ebrei, ma non pregavamo, non andavamo mai in sinagoga e abbiamo pagato un prezzo molto alto per qualcosa che non eravamo. Siamo divenuti ebrei da quando siamo arrivati qui, sono stati gli altri a ricordarci il nostro status». Ridacchiava. «La prima volta che a scuola gli altri bambini mi chiesero se fossi ebrea, risposi convinta: “No”.». Girava lento il suo caffè. «Per mia madre è stato più difficile che per noi. Mi ricordo che quando io e mia sorella eravamo già a letto, la sentivo lamentarsi fino arrivare a imprecare contro la gente di Vaduz, contro l’arretratezza delle donne. Mio padre le ricordava la fortuna che aveva avuto e lei restava in silenzio, poi iniziava a piangere. Li sentivo abbracciarsi e baciarsi».
“Non dobbiamo mai accontentarci,” conclude Gaia Mencaroni, “non si deve essere come Marco Gatti, che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, se un mostro invisibile non gli avesse mangiato l‘entusiasmo, se non si fosse accontentato di poco e nella pochezza avesse smesso di credere in un mondo migliore.”