Ma Weiwei è solo la punta di un iceberg che sta mostrando sempre più la sua vera dimensione, una sorta di “new wave” cinese che negli ultimi decenni ha imparato ad allargare la propria fama nelle gallerie e nei musei occidentali. Del resto, la rapidità con cui si muove il colosso orientale in ogni ambito non poteva coinvolgere anche l’arte – solitamente anticipatrice di tendenze e cambiamenti.
La prima domanda in realtà riguarda se abbia davvero senso definire geograficamente un’espressione artistica contemporanea in tempo di connessioni veloci, gentrificazioni e vetrine mondiali. Come ha avuto modo di spiegare Paul Gladston, uno dei maggiori esperti di arte cinese contemporanea, in un’intervista di Paolo Quattrone: «Da un punto di vista accademico occidentale (occidentalizzato) contemporaneo saremmo portati a respingere l’idea ottocentesca di un’arte definita da confini culturali nazionali. La cosiddetta arte contemporanea (dangdai yishu) prodotta da artisti della Repubblica Popolare Cinese o che in essa ci lavorano è caratterizzata da intersezioni tra pensiero e pratica culturale “cinese” locale, modernista occidentalizzata, postmodernista e contemporanea». Trovando la maggiore difficoltà nello stabilire un unico comun denominatore all’arte che viene dalla RPC per la mastodontica estensione territoriale che rende impossibile individuare una cultura uniforme. Allo stesso tempo Gladston chiarisce che però ogni influenza viene rifratta e “masticata” con gli elementi culturali tradizionali, per poi essere rielaborata in modo autonomo.
Comunque sia la Cina artistica è sempre più presente fuori dai suoi confini, e l’Italia non fa eccezione. Se si è appena conclusa a Brescia la mostra “China now. Arte contemporanea dalla Sigg Collection”, alla Fabbrica del Vapore di Milano prosegue fino all’8 ottobre l’esposizione “Cina – La nuova frontiera dell’Arte”, con circa 200 opere di oltre 150 artisti, tra dipinti, calligrafie, sculture, manifesti, fotografie, filmati e video, che raccontano come la produzione artistica della Repubblica si sia modificata – compresa l’introduzione piuttosto recente della pittura a olio – e soprattutto come le espressioni locali si siano intrecciate alla grande arte internazionale, come la Pop Art che è stata rielaborata nella locale corrente di Pop Cinico prima e Pop Ludico poi.
Ma è specialmente Firenze che sembra vivere un momento di passione con l’oriente. Il prezioso scrigno di palazzo Strozzi ha chiuso in questi giorni i battenti dopo la mostra estiva di Yan Pei-Ming, che ha conquistato il pubblico con i suoi dipinti di formato extralarge con cui indaga la realtà e costringe a una riflessione sul valore dell’immagine nell’epoca dei social, mentre nella sala d’Arme di Palazzo Vecchio è stata da poco inaugurata, fino al 18 settembre, la personale di Liu Bolin, “l’uomo camaleonte” diventato celebre per la sua capacità di mimetizzarsi con gli sfondi: l’allestimento mostra le immagini delle sue ultime fatiche tra le sale di Palazzo Pitti e degli Uffizi, oltreché in altri luoghi iconici della città, e una proiezione immersiva del backstage del lavoro, in cui viene illustrato il procedimento usato dall’artista e dai suoi collaboratori per creare ogni immagine. Ed è precisamente a Palazzo Pitti che apre domani “Obscured Existence”: 28 dipinti dell’artista Wang Guangyi, che compongono un percorso a tappe in quattro cicli per raccontare i riti, gli oggetti la gestualità quotidiana, cercando di coglierne gli aspetti più profondi. I lavori dell’artista – filosofo svelano un ulteriore aspetto della capacità espressiva orientale, intrisa di storia dell’arte classica – Masaccio, Leonardo, Mantegna, Caravaggio, Duchamp – sospesa tra la cupezza di Bacon e la sfrontatezza di Basquiat. Sicuramente più vicino alla nostra estetica di quanto ci potremmo aspettare.