Pizzolante, la vicenda drammatica della dirigente del Ministero dell’Università e della Ricerca Giovanna Boda, che ha tentato il suicidio dopo un avviso di garanzia, lascia sgomenti. Ancora una volta in Italia un’ipotesi di reato equivale, o rischia di equivalere, a una condanna a morte. Che ne è della presunzione di innocenza fino alla condanna definitiva?
E’ la macchina mediatica-giudiziaria che uccide le persone. Tutto è iniziato con Tangentopoli e l’uso spettacolare e politico dell’azione giudiziaria, che la caratterizzò fin dal principio. Durante Tangentopoli le persone si suicidavano tutti i giorni. Una campana a morte quasi quotidiana che avrebbe dovuto insegnare qualcosa e, invece, la situazione è ulteriormente peggiorata. Luca Palamara l’ha chiamata la regola del tre, quella del corto circuito provocato dalla combinazione fra l’azione giudiziaria preventiva e la spettacolarizzazione strumentale dei mass media. Un cocktail micidiale che produce una giustizia tutta spostata dalla parte dell’accusa, galvanizzata e surrogata dallo scandalismo giornalistico. Un cocktail che distrugge la vita e la reputazione delle persone. Che distrugge le imprese. Una persona, che sia un dirigente della pubblica amministrazione, come è nel caso di Giovanna Boda, un imprenditore, un singolo cittadino o un singolo politico, quando la macchina giudiziaria si mette in moto, vede compromessi la sua reputazione, la sua vita, il suo lavoro. Ci sono casi estremi come questo, il tentativo di un suicidio fisico, ma ci sono tantissimi altri casi sconosciuti, che non emergono. Che vanno catalogati come suicidi morali. Di persone che muoiono dentro, che vedono la propria reputazione distrutta per sempre.
Quando ventinove anni fa ebbe inizio Tangentopoli, non c’erano le piazze virtuali… Internet, Facebook, Twitter… Oggi la gogna è più facile più spietata…
Di una persona sbattuta sui giornali dopo un avviso di garanzia rimane una traccia indelebile nella rete. Anche se poi risulterà innocente. E una persona, segnata da una traccia eterna nella rete, è privata del suo futuro. Chiunque oggi decide di assumere una persona o di avviare con lei un rapporto di collaborazione professionale, se va sulla rete e vede l’ombra di una traccia di questo tipo, si ritrae prima di cominciare. Quella persona non ha nessuna chance. E’ un mondo, tutto un mondo che tende ad uccidere la dignità delle persone e, in taluni casi, anche la loro esistenza fisica. Già per le perone colpevoli la gogna mediatica è sproporzionata. Figuriamoci per le persone innocenti che sono la stragrande maggioranza degli indagati. L’Italia è stata più volte condannata a livello europeo per l’abuso dell’uso preventivo della giustizia e per il rapporto, una vera e propria voragine, fra le iniziative giudiziarie avviate e quelle concluse con una sentenza di colpevolezza. E’ il grande dramma di questo Paese. Un dramma figlio della fragorosa rottura del fisiologico rapporto fra i tre poteri previsti dalla Costituzione: legislativo, esecutivo e giudiziario. Con il potere giudiziario, che con l’ausilio e la complicità del quarto potere mediatico, ha sopraffatto gli altri due e, soprattutto, ha travolto e stravolto lo Stato di diritto.
Che cosa prova di fronte all’ennesima tragedia. Di fronte a una donna stimata e incensurata che si lancia dalla finestra perché non sopporta il peso, il macigno, del sospetto?
Tanta rabbia. Io ho stampata nel mio cervello la lettera scritta da Sergio Moroni prima di suicidarsi. Moroni era un parlamentare. Era un uomo potente. In quella lettera fotografa perfettamente la sua situazione. Parole lucide e strazianti. “Quando la voce è flebile, non rimane che un gesto”. Parole da cui emerge l’impotenza delle persone, e quindi la loro voce flebile, di fronte alla prepotenza e alla strapotenza dell’aggressione mediatica-giudiziaria.
di Antonello Sette