Max Rendina, lei ha raccontato la sua vita in un libro, pubblicato dalla Male Edizioni di Monica Macchioni. “La storia di un campione di periferia” è il sottotitolo. C’è tanta periferia nella sua esistenza e anche tanto dolore?
La mia periferia viene dopo un abbandono. A tre anni i miei genitori m hanno rinchiuso in un collegio. Un luogo senza tempo e senza spazio. Ci sono rimasto fino a dodici anni quando mio padre mi venne a prendere e mi portò a vivere con lui nella sua casa di Acilia, una borgata che avvicina Roma al mare. Ora sono un uomo di successo, ma ancora mi porto dentro quel ragazzo sperduto arrivato ad Acilia dopo un incubo durato quasi dieci anni. Dieci anni di niente. Io sono nato a dodici anni.
E sua madre?
Mia madre non c’era. E’ morta quando avevo 28 anni, ma per me è come se non fosse mai esistita.
Fino a quando è rimasto con suo padre?
Ho vissuto con lui fino a diciotto anni. Poi, sono andato via di casa perché ho avuto subito un figlio. Sono stati anni molto complicati. Non avevo nulla. Solo un figlio e una vita tutta da costruire. Mi arrangiavo con i lavoretti che mi capitavano. Arrancavo.
Quel figlio arrivato quando era appena maggiorenne la aiuta a trovare finalmente un po’ di pace o la sua vita resta il porto delle nebbie?
Sono cresciuto con un’irrequietezza dentro. Una smania. Non mi fermavo mai. Mi è mancato l’equilibrio che solo una madre vera ti può dare. Io ho avuto quattro figli da quattro donne diverse. Una corsa a ostacoli che si è fermata solo quando nel 2004 ho incontrato Francesca.
Prima di Francesca, la donna che le ha regalato la pace dei sentimenti, era, però, già accaduto qualcosa. La sua vita era cambiata…
Il padre della mia seconda moglie Sabrina faceva il copilota nei rally. Mi portò a fare delle prove. Mi disse subito che avevo delle doti velocistiche fuori del comune e che potevo diventare un campione. Avevo ventitré anni. Finalmente non navigavo più nel buio assoluto. Vedevo la luce di una prospettiva di vita. Avevo finalmente un obiettivo, un sogno da coltivare, tutto mio.
Da lì è una cavalcata senza fine. Non si ferma più, ma questa volta per afferrare quella cosa concreta chiamata successo…
Mio suocero mi portò in una squadra dilettantistica di Ostia, la DGS Autosport. Inizio a correre. Qualche sponsor di zona mi dà una mano. Amici più che altro. Cambio squadra. Poi fondo una squadra mia, la Project Rally, una delle prime scuderie italiane nel mondo del rally professionistico. Corro e vinco. Campione italiano, campione del mondo. Dalla periferia al podio più alto. Ce l’avevo fatta.
Guidare però non le bastava. Voleva andare sempre più in là…
Nel 2010 fondo una società di servizi industriali e aeroportuali attiva nei principali scali di Roma e Milano. Oggi la SkyGate è un marchio importante e di successo. Tre anni dopo, prima ancora di diventare campione del mondo, invento il primo Rally di Roma capitale. Nel 2017 il Rally che ho creato dal nulla diventa una tappa del campionato europeo, il Rally più importante d’Italia dopo il Mondiale Rally di Sardegna.
E’ diventato l’eroe di un mondo rumoroso e spericolato. Le torna qualche volta in mente il bambino cresciuto in un collegio senza le carezze di un madre e di un padre?
A parte l’infanzia perduta in un collegio, la mia vita è stata un incubo dal raggiungimento della maggiore età fino a ventisei, ventisette anni. Facevo fatica a sopravvivere. Ero un uomo disastrato. Da quando sono diventato l’uomo che sono, ho scoperto tanti parenti. Io ho perdonato tutti, ma so benissimo che sono parenti per modo di dire. Nessuno di loro mi era venuto a trovare nei nove anni e più che ho trascorso da solo dentro un collegio. Un ricordo doloroso. Una ferita fra tante altre. Diego, invece, c’è sempre stato. Nella buona e nella cattiva sorte. E’ lui il mio amico del cuore.
Quale altro sogno vorrebbe si avverasse?
Vorrei che il Rally di Roma diventasse una tappa del campionato mondiale. E poi, visto che la mia squadra gestisce i giovani della nazionale di rally, vorrei che uno di loro corresse un giorno nel campionato del mondo. Vorrei scoprire un grande talento, il campione che emuli e magari superi le mie gesta sportive.
Qualcuno che ripercorra la sua storia. Le capita di rivivere l’incubo che è stata per ventisette anni la sua vita?
Dentro di me alcune cicatrici sono rimaste. Indelebili. Le combatto provando a fare del bene e a immedesimarmi negli altri. Sono un uomo che sta vivendo una favola. Una moglie, quattro figli, Diego, altri cinque amici veri e un lavoro che è la straordinaria passione della mia vita, ma non dimentico. Non posso e non voglio dimenticare.