Gaetano ha solo otto anni, dei pantaloncini blu sdruciti, una canottierina a coste che un giorno, forse non lontano, fu bianca e indossa un paio di guantoni rossi, troppo grandi, che gli arrivano quasi ai gomiti, ma picchia duro contro il sacco di sabbia.
Sogna di diventare un pugile famoso, uno di quelli che guadagnano «un mare di soldi», che hanno le foto sui giornali e abitano in grandi case colorate con il prato intorno. Così potrebbe aiutare sua madre che fatica tutto il giorno per una paga da fame. Gaetano si allena ogni giorno per un'ora, dopo aver finito i compiti, in una piccola palestra in quartiere popolare, come tanti, in una città del Sud, ma non è il solo. Con lui altri venti ragazzi, fra i dieci e i diciotto anni, ogni pomeriggio s'incontrano per boxare, imparare quella che una volta si chiamava «la nobile arte» e sognare una vita diversa in un quartiere in cui la povertà più che essere una condizione è spesso una malattia ereditaria, che si tramanda di generazione in generazione.
Ad allenarli c'è Salvatore, capelli brizzolati, un po' stempiato, una passione forte per il pugilato e la sua gente, che lo ha spinto a mettere da parte per anni i soldi degli straordinari e a tirar su dal nulla, qualche anno fa, una palestra, nella canonica di una delle infinite chiese abbandonate che affollano il centro storico della sua città, con ring regolamentare, pesi e sacchi di sabbia.
«La boxe è come le donne – dice Salvatore –, o ci s'innamora a prima vista o niente, non ci sono vie di mezzo. Sono entrato per la prima volta in una palestra a tredici anni per accompagnare un amico più grande – racconta – e da allora non ne sono più uscito. A quattordici anni e mezzo ho fatto il primo incontro e non mi ricordo più neanche se l'ho vinto o perso, quanto tempo e passato, – sorride – erano gli anni Settanta del secolo scorso e c'era la fame. Io lavoravo di giorno e la sera mi allenavo, quando dovevo combattere mi davo malato, per questo motivo sono stato anche licenziato due volte. Talvolta – continua – tornavo al lavoro ammaccato e dovevo inventare un sacco di scuse per giustificare i lividi».
Poi son venuti il matrimonio, i figli e la necessità di non rischiare il posto di lavoro. Salvatore è costretto ad appendere i guantoni al chiodo, ma continua ad allenarsi ogni sera, organizzare piccoli tornei e frequentare l'ambiente.
Un giorno un amico, che gestisce una palestra in un piccolo centro della provincia, gli chiede se gli va di dargli una mano ad allenare qualche ragazzo che promette bene, accetta. Comincia quella che lui stesso chiama la «fase due» della sua vita sportiva. «Ho scoperto – dice – che questo modo di vivere la boxe mi piaceva di più. Allenare un adolescente, infatti, e anche in un certo senso educarlo, accompagnarlo in un tratto di strada che è o è stato, in fondo, il più difficile per tutti. E in questo senso – continua –, la boxe e una scuola straordinaria perché t'insegna ad autodisciplinarti, a controllare la tua aggressività, ad imparare a studiare chi hai di fronte per indovinare le sue mosse. Insomma, ti sveglia».
Un pomeriggio, poi, mentre torna a casa dal lavoro, si ferma ad osservare due ragazzini che mimavano a fare i pugili, non si scambiano pugni, stanno immobili l'uno di fronte all'altro e cercano di anticipare, parandosi con le braccia, i colpi del compagno.
«Una tecnica quasi perfetta – ricorda –, quei due erano dei veri boxeurs. Il campione, infatti, non mira a far male all'avversario, ma a dimostrargli con l'agilità dei movimenti la sua superiorità. Ho pensato: peccato che nessuno si accorgerà mai di questi due, magari potrebbero anche sfondare. Non ci ho dormito la notte. La mattina dopo – conclude –, avevo già deciso, cercai un locale e misi su una vera palestra tutta per loro, per levarli dalla strada, per non fargli venire strane tentazioni e per invogliarli e, per favorire le famiglie, non ho mai chiesto un euro. Qualche volta mi chiedono se sono credente, per me credere significa semplicemente questo: insegnare a questi ragazzi quello che possono diventare, persone migliori».
Adesso Salvatore ogni pomeriggio, alle cinque, scende da casa e va ad aprire il locale della vecchia canonica dove s'insegna la «nobile arte», dietro di lui una torma di ragazzini spinge e si precipita dentro a sognare di essere Rocky Balboa che non ha paura di nessuno, neppure dei mafiosi, sconfigge i malvagi e abita in una grande casa colorata con il prato intorno. E chissà che un giorno la favola per qualcuno non si avveri.