Milano anni 60: sono gli anni del baby boom, della grande imprenditoria e del design, di Enzo Mari e di Ettore Sottsass, di Enrico Mattei e di Olivetti, della Montecatini e del moplen e i colori della plastica infondono fiducia in un popolo che solo adesso capisce davvero di essere uscito dalla guerra, di aver ricostruito e di essere in grado di sostituire l'american way of life con l'italian style. Milano è la capitale morale d'Italia.
A Napoli i giovanissimi Lucio Del Pezzo e Bruno di Bello sono tra i fondatori del Gruppo 58, apertamente schierato a favore del Movimento dell’Arte Nucleare avviato da Enrico Baj a Milano. Sodalizio rinforzato dalla mostra “Gruppo 58 + Enrico Baj” alla Galleria San Carlo di Napoli nel 1959. Il Gruppo 58 rappresentava la volontà concreta di un superamento dell’astrattismo attraverso l’apertura ad una nuova possibile figurazione: al centro l’uomo e il mito, le forze primordiali e la sperimentazione di nuovi linguaggi, in una sorta di metissage tra archetipo e contemporaneo. Inevitabile per artisti animati da forze di “rottura” essere attratti dall'ambiente artistico milanese. Surrealismo, Cobra, Nucleare, Spazialismo: tutto passa per la Milano del dopoguerra e quasi tutti gli artisti attraversano le esperienze dei colleghi almeno a livello teorico. C'è voglia di scambi, c'è curiosità, c'è tanta fame ma la cultura è di più.
Invitato da Baj e da Arturo Schwarz, Lucio Del Pezzo arriva dunque a Milano, crocevia d’Europa e cuore pulsante d’un intreccio di movimenti artistici e di continue trasmigrazione d’intenti. Nel 1960 Pierre Restany pubblica il manifesto del Nouveau Réalisme organizzando alla galleria Apollinaire di Milano una mostra del gruppo e nello stesso anno Del Pezzo tiene la sua prima personale da Schwarz, lavorando sul concetto di assemblage. L’attenzione però che l’artista dedica all’oggetto è particolare e non risente minimamente dell’accumulazione dei Nouveaux Réalistes: organizza infatti i suoi reperti in una dimensione architettonica, anche se in maniera non subito evidente. Più avanti questa volontà di indicare una linea narrativa, di organizzare simultaneamente coesistenze linguistiche differenti diventerà più ordinata e metafisica, da archeologo.
E mentre Del Pezzo forse ancora inconsapevole organizza e incasella, il più giovane Di Bello dimostra una spiccata attenzione per il segno e le sue possibilità combinatorie prima in pittura poi nella fotografia. Dopo avere esposto alla Modern Art Agency di Lucio Amelio, nel 1967 è anche lui a Milano,dove non tarda a legarsi ai movimenti dalla sperimentazione più audace, quali la Mec Art teorizzata da Pierre Restany. Scegliendo i volti iconici dei protagonisti delle avanguardie storiche e dei propri miti artistici (Klee, Duchamp, Man Ray, Mondrian e i costruttivisti russi) Di Bello usa la tela fotosensibile per catturare, scomporre, analizzare e poi ricostruire in modo arbitrario la figura, portando avanti un’idea di arte come riflessione sulla storia della modernità. Ugualmente indaga linguaggio e parola, e scomponendola con chiaro intento aniconico giunge a nuovi alfabeti e a nuove astrazioni fredde e concettuali.
E a proposito di nuovi alfabeti… Arriva il 1964 e la Pop art statunitense era sbarcata in Biennale a Venezia: con il pop gli States offrivano al vecchio continente la pluralità dei linguaggi, la simultaneità, la possibilità di slittamenti semantici rivoluzionari. Il mondo ufficialmente cambiava. Ancora una volta.
Ho avuto modo di parlare con Del Pezzo, con Gianni Bertini, con Bruno Di Bello: tutti mi hanno detto la stessa cosa. Nessuno di loro, se pur comunemente in un certo momento del loro percorso artistico collocati dalla critica nel pop, si sente debitore dell’esperienza statunitense. L’attenzione europea è nei confronti dell’oggetto in quanto tale, non della sua raffigurazione reiterata ed esasperata sino a diventare icona del nulla, come fu per Warhol (che seppe trasformare questa ossessione estetica nella sua grandezza). L’esperienza italiana nello specifico recupera il senso del ready-made e questo permette la consapevolezza di una linea narrativa che pur prevedendo sovrapposizioni e interferenze linguistiche, non vive della dimensione sincronica e atemporale statunitense ma si muove in senso diacronico secondo quella linea che solo la matrice storica europea poteva offrire.
Sia Del Pezzo sia Di Bello sono piuttosto dunque debitori – ognuno nella propria cifra stilistica- di Duchamp, del Futurismo e della metafisica.
Del Futurismo in entrambi sono il gioco e la velocità: sfida, rebus, uso di calembours, metonimie, ironia insomma il gioco che, propedeutico alla paideia, insegna a usare le capacità combinatorie del pensiero, a trovare soluzioni, a immaginare. Della metafisica invece sarà quel senso di incompiuto e di struggimento, il desiderio etico di una perfezione che può avvenire solo in una dimensione senza tempo ma dalla forte tensione emotiva.
Dunque del pop Del Pezzo e Di Bello raccolgono l’oggetto in senso lato, non escludendo numeri, lettere, parole non solo per il valore iconico, non solo per il valore plastico e calligrafico, ma soprattutto per la possibilità ironica offerta dalla figura retorica, intrigati dalla potenza di contrappunti concettuali estremamente arditi.
Da Milano alle mostre in tutto il mondo: Del Pezzo fu spesso a Parigi, Di Bello spesso in Nord Europa, ma entrambi rimasero napoletani a Milano, sino a morirne.