Prima di addentrarci nella densità di una scrittura aristocratica, in cui il respiro di ogni periodo si estende con acrobazie stilistiche di mirabile bellezza, quasi così forti da illuderci che la prosa sia tornata a incamerare ossigeno a pieni polmoni dopo decenni di sconforto, molto prima del covid; ci soffermiamo su questo titolo enigmatico, idiomatico: INNOMINAZIONI.
Titolo asciutto eppure così caratterizzante, per questo romanzo, da essere espungente fra le ricerche sul web: in prima posizione, in solitaria infatti, si trova il libro.
Da questo esclusivo neologismo tentazione, può saltare alla mente San Giovanni Battista, è innominato in molti modi: “il discepolo che egli amava”; oppure si può pensare all’Innominato di manzoniana memoria; anche Dio, nella cultura ebraica non si nomina se non impersonalmente: HaShem (il Nome).
Fra tutto l’innominata per eccellenza è la Morte: non solo quella della falce, ma anche intesa come “necessaria” per una rinascita, quindi dal valore iniziatico. Questo romanzo procede, come in un processo alchemico, attraverso una spinta trasformatrice che racchiude il thanatos e l’eros. Si comincia con la disgregazione, per terminare con un afflato dolcissimo di un ricordo di madre e il suo richiamare per nome (diminutivo), delicatissimo: Ni.
Torniamo alle innominazioni: la morte improvvisa di un padre spirituale come Thomas Bernhard si sovrappone a quella del padre. Una morte veloce, inaspettata che fa riflettere, immaginare e indagare in uno scandaglio continuo. E una morte lenta invece, che vive di consapevolezze e debolezze: una vera e propria degenerescenza da vivere accanto alla mente e al corpo. Quale fa più male? E soprattutto cosa resta?
Sabina Spielrein, una quasi sconosciuta psicoanalista di prima generazione, scrisse: “La morte come principio del divenire”, e qui, in queste pagine dove si versa il flusso di coscienza dello scrittore, il magma incandescente su cui si muove spericolato fra lapilli e fumi è proprio l’esperienza della morte, così carnale da trovare la sua meta in un corpo di donna che sfugge per quanto si fa centro di attenzioni, sogni, simboli. Le parti del corpo diventano equilibrio su cui restare senza rete a giocare sul filo di visionarie intenzioni e provocazioni mentali. Il processo del divenire allora è come una spirale in cui la vita è fermento e firmamento di tante cose, fra cui le malattie, i desideri, le amicizie, il piacere. È un turbine emotivo, ben rappresentato dalla scrittura di Giuseppe Barbieri, che è un incedere disarmante, ipnotico. Le uniche autentiche pause sono rappresentate dai capitoli che scandiscono la ripetizione del primo capoverso, o quasi, permettendo al lettore una breve, ma gratificante sosta dopo l’emozione.
Perché il pensiero procede così, senza uno stacco; si inanellano associazioni, visioni e Giuseppe, nella lucidità della sua scrittura, offre al lettore l’unica possibile bussola per orientarsi: il respiro. Questo romanzo è vivo. Respira.
Uno scavo verticale verso se stessi, attraverso l’immaginario degli altri; e allora diviene fondamentale indagare, documentarsi circa la morte del maestro Thomas Bernhard e ragionare sulle cause che l’hanno portato a dismettere la vita, così come a gomito a gomito osserva il naufragio dell’esistenza di suo padre. Una cartella clinica ossessiva che emerge sempre più agli occhi del lettore e si fa tessuto narrativo in connessione con la stessa scrittura dell’io narrante che a sua volta, nell’impianto del romanzo, è scrittore. E la scrittura diviene anche un ricordo e un legame di un’amicizia perduta che collima con le atmosfere di un’infanzia attraversata sempre da quel desiderio di svelare i meccanismi di un ingranaggio apparentemente perfetto come accadeva in quei giocattoli “meccanici” orientati in uno spazio definito da linee immaginarie, posate sulle mattonelle di casa Perché la trama che s’innerva in quest’opera del tutto virtuosa, è a mio avviso, un’affannosa ricerca dei ricordi: gli unici che ci garantiscono continuità.
Quale fa più male?
Entrambe.
E soprattutto cosa resta?
Il ricordo.
E allora in un mosaico di composizioni e scomposizioni fra ragionevolezze e frivolezze ecco che il corpo d’una donna è organismo e origamo; saranno le sue pose, i suoi ingranaggi perfetti ad articolare visioni, ad emanare magnetismi, al di là di qualsiasi contatto. Una donna così certa di particolari, eppure così sconosciuta. Così è la vita: terapeuticamente legata ai ricordi, nei labirinti della mente e nell’anamnesi del cuore. Una psicobiografia senza cronologie, né tempo; magari è durata un secondo o un secolo. Una vita che attraversa la vita.