“Le mie prime raccolte, che non ho quasi più riletto se non alcuni estratti, provenivano da tutt’altra considerazione personale della poesia, il senso che davo al poetare era molto nitido dentro di me, la ricerca della poesia si sposava perfettamente con la riflessione e la conoscenza di se stessi e del mondo, era un fatto che davo per scontato, quei lavori risentono di queste e altre illusioni che avevo sulla vita, la cultura letteraria, la poesia e me stesso.” – Emanuele Martinuzzi
Sulla via che percorriamo e che denominiamo vita capita, talvolta, la possibilità di guardarsi allo specchio in modo diverso, con uno sguardo interiore che disprezza la menzogna. Se, in quell’occasione, l’essere umano – il poeta – è disponibile all’ascolto si può accedere alla porta con quella consegna di chiavi che permette l’ingresso in un mondo altro, grazie al quale si ha l’abbandono di ‘alcune’ illusioni che impugnavano le redini del cocchio. ‘Alcune’, già, perché oltre all’imprevedibilità della corsa dei due cavalli anche il paesaggio che incontriamo potrebbe imbastire una nuova tavola nella quale l’arrogante desiderio ci fa tramutare le vivande in oro.
Emanuele Martinuzzi (Prato, 1981) si è dedicato ai versi sin dalla tenera età ed, anche, dopo la laurea in Filosofia ha continuato una strada solitaria di dialogo incessante. Dalla prima pubblicazione con “Nella pienezza del Non” sino al canzoniere di cui si tratterà in questa intervista, Emanuele si è prodigato nell’indagine sul perché della scrittura come necessità “costruttiva affidata al verso”.
“Notturna gloria” edito da Robin Edizioni nel 2021, con prefazione di Adua Biagioli Spadi, è una raccolta di ventuno poesie associate ad altrettante illustrazioni del Maestro Gianni Calamassi. L’opera presenta un differente concetto di gloria che per l’appunto è notturna, è oscura, infernale. Il canzoniere è suddiviso in tre parti, nella prima trovano spazio le città in stato di abbandono, nella seconda città storicamente esistite e nella terza ed ultima parte luoghi immaginari.
“[…] Fuggo cavo di me stesso nelle caverne/ del sentire, spigoloso mi dicono i vocaboli/ di seta delle rocce, rime vaganti in questa/ eco arretrata alla morte// […]” – “Aufugum”
A.M.: Benvenuto Emanuele, è un piacerti poter presentare ai lettori la tua novità editoriale. Anni fa ci siamo incontrati con tre tue sillogi: “Nella pienezza del Non”, “Anonimi frammenti” e “Dopo il diradarsi, la nude”. “Notturna gloria” è in comunicazione diretta con questi titoli citati oppure percorre un’altra via?
Emanuele Martinuzzi: Un vero piacere poter parlare con te ancora una volta del mio ultimo lavoro letterario. In effetti è trascorso tanto tempo dalla mia prima autopubblicazione “Nella pienezza del Non” che venne alla luce nel 2010, più di dieci anni fa, mi sembra passata una vita. Già allora fu un cambiamento non da poco, dopo che per tanto tempo, da quando avevo dodici anni, avevo vissuto la poesia in modo intimo, scrivendo solo per me stesso, mettendo in un cassetto le mie poesie, percorrendone i sentieri in solitaria e allo stesso tempo in liberissima ricerca, leggendo e dialogando solo con gli autori del passato e con le mie emozioni più profonde. Da un lato sento che tra i primi lavori pubblicati, tra cui appunto “Anonimi frammenti”, “Dopo il diradarsi, la nube”, “Polittico” e questo ultimo canzoniere c’è una sottile comunicazione, anche ideale, per ponti misteriosi, accomunati dalla mia sensibilità che nel tempo si rinnova certamente ma permane, dall’altro sinceramente parlare anche solo dei miei primi lavori e di conseguenza del me di allora mi pare addirittura di evocare le reminiscenze di un'altra vita, letteraria anche, e rispetto ad adesso è come ci fosse un burrone di differenze non più avvicinabili, né colmabili neanche dal ricordo, che non riesco a mettere a fuoco del tutto. Le mie prime raccolte, che non ho quasi più riletto se non alcuni estratti, provenivano da tutt’altra considerazione personale della poesia, il senso che davo al poetare era molto nitido dentro di me, la ricerca della poesia si sposava perfettamente con la riflessione e la conoscenza di se stessi e del mondo, era un fatto che davo per scontato, quei lavori risentono di queste e altre illusioni che avevo sulla vita, la cultura letteraria, la poesia e me stesso. Non li rinnego assolutamente fanno parte di quello che ho scritto, sono lì a testimonianza di qualcosa, anche se non so più bene cosa in realtà o meglio sono semi germogliati e lì accetto per come sono o non sono. Quella fiducia costruttiva affidata al verso, quel senso filosofico della poesia sono prospettive in cui non mi riconosco più così in modo entusiasta e privo di tentennamenti. Quel percorso si è evoluto fino alle mie due raccolte “L’oltre quotidiano – liriche d’amore” e “Di grazia cronica – elegie sul tempo”, edite da Carmignani editrice, che in un certo qual modo sono l’apice del mio intendere la poesia come forma interiore, una via primigenia del filosofare, strutturate per temi, portatrice di significati criptici ma netti, essenziali, cioè l’una l’amore come archetipo del femminile, l’altra il tempo come archetipo del maschile. Dopo per me c’è stata la diaspora dei saldi pensieri, la perdita di quel centro di gravità permanente che si rifletteva nelle mie poesie. La vita mette sempre in discussione tutto, porta ombra dove si crede ci sia solo luce, o fa apparire il chiaroscuro in ciò che si chiamava sole. In questo senso è più originale e fantasiosa di qualsiasi autore. Un lungo e confuso periodo contrassegnato dal cosiddetto blocco dello scrittore è stato capace di esiliare i miei punti di riferimento interiori, cambiarmi, vedere diversamente la poesia, anzi forse vedere per la prima volta come non la vedessi, che fosse qualcosa di sfuggente, incomprensibile, forse una passione che non capivo profondamente, che mi illudevo di controllare, pur traghettandomi in territori di estasi e tormento, senza neanche sapere come e perché. In questo periodo di ripensamento ho pubblicato altre due raccolte “Spiragli” edita da Ensemble e “Storie incompiute” edita da Porto Seguro editore, che apparentemente possono sembrare poesie ermetiche, di ispirazione orientale, con l’intenzione di tendere verso l’essenziale, ma che in realtà si compongono di scritti nati incompiuti, epigrammi manchevoli, frammenti e spiragli segnati da una voce interrotta, ossia sono ciò che ho saputo tirare fuori da un’ispirazione disorientata, senza largo respiro, che veniva fuori a tratti, gettata sul foglio bianco senza più il solito e passato labor limae, ma così come un gesto al di là del senso, un comunicare a prescindere, un bisogno di cuore e pancia, senza più troppa mente o riflessione. In questo contesto ho incominciato a fare viaggi alla ricerca di luoghi abbandonati, siti archeologici, monumenti d’arte, chiese antiche e altre architetture del passato, all’inizio per diletto e poi per seguire una strana esigenza ancora non ben compresa. Poi dai territori fisici mi sono spostato nei territori letterari, cosiddetti inattuali, remoti, lontani, a me sconosciuti o in quelli della fantasia, complice anche un periodo di problemi personali, che non mi permettevano di spostarmi agevolmente. Girovagando trovavo pace e meraviglia in questi spazi dalle molte dimensioni, incurvati nel silenzio, e venivo a volte asserragliato da parole e frasi che trascrivevo e componevo via via, formando così quelle che poi sarebbero diventate le 21 poesie del mio ultimo lavoro poetico. Così è nato piano piano, viaggio dopo viaggio, ombra dopo ombra, eco dopo eco, dubbio dopo dubbio, lettura dopo lettura, dal 2017 al 2019, questo canzoniere illustrato intitolato “Notturna gloria” edito da Robin edizioni. Ancora non so cosa e se ho trovato qualcosa, ma la sensazione del viaggiare mi ha fatto avvertire la possibilità di nuove radici ed elaborare il lutto in un certo senso, trasfigurando quelle perdute.
A.M.: Nella prefazione de “Notturna gloria”, Adua Biagioli Spadi scrive: “Il viaggio intrapreso dal poeta, quasi una sorta di ricordo dantesco, è un addentrarsi fisico e mentale nella fragilità delle cose e del suo stesso io: egli stesso coglie l’inizio dell’ombra per risalire a una luce fiduciosa che sa di avere un luogo, da qualche parte, una destinazione tutta da ritrovare.” Ombra e luce, viaggio e casa: perché il poeta trascorre la sua esistenza in viaggio?
Emanuele Martinuzzi: Tutta la prefazione della poetessa Adua Biagioli Spadi è riuscita davvero a farmi comprendere meglio che cosa avessi comunicato agli altri, che cosa potessi capire meglio del mio scrivere e nuove sfumature non preventivate né calcolate nella stesura, a cui abbandonarsi così senza riserve. Ha impreziosito sicuramente il tutto dando uno sguardo tagliente e profondo, dove si doveva e poteva, per osservare nell’invisibile. Comunque non solo i poeti, siamo tutti in viaggio in qualche modo, anche senza uscire dalla propria casa o dalle proprie emozioni. Siamo abitati da luoghi, o meglio non-luoghi, utopie che ci attraversano, desideri che ci lacerano e che spesso non vengono ascoltati, si passa una vita a viaggiare magari fisicamente senza fermarsi ad osservarsi, inseguendo il cambiamento, gustandone l’ebbrezza o irretiti dalla fretta, senza sentire più cosa rimane invece immutato e morto dentro di noi, o magari una vita trincerati nella propria casa, impauriti e protetti dall’esterno, illudendosi di rimanere sempre gli stessi, di poter controllare il cambiamento, il divenire delle cose e di ciò che siamo e non siamo o non sapremo mai. Nello spaesamento che vivevo, viaggiare, spesso nella mia amata Toscana alla scoperta di luoghi bellissimi e poco conosciuti, se non dimenticati, è stato un rispecchiamento continuo nei tormenti di ciò che non osavo più chiamare, né evocare attraverso le disperse parole della poesia. Nella mitologia antica è un classico che l’eroe, il poeta o il mistico debba attraversare il guado della vita più misteriosa, intraprendendo la sua catabasi, la sua discesa nell’oltretomba che fuor di metafora può essere la sua immersione nelle ombre della propria anima, per recuperare l’amore fuggito o disperso, la propria Euridice da salvare, o incontrare Beatrice, solo mezzo di salvezza per vedere faccia a faccia la scintilla di senso che ci abita, al di là del deserto in cui ci troviamo a peregrinare a volte. In questo caso discendere nelle ombre di ciò che è abbandonato o spopolato, nella voragine di ciò che è distrutto o scomparso o nella vertigine del sogno, è stata sia la catabasi che l’anabasi, sia un perdersi che ritrovarsi nella scrittura di queste poesie, in una straniante forma di rispecchiamento e perdizione. La poesia è salvezza e dannazione, una benedizione e un labirinto. Non si può prescindere dal vivere le contraddizioni se si vuole leggere, scrivere, vivere le proprie poesie, la poesia.
A.M.: Ogni poesia è compagna di una speculare illustrazione, opere del Maestro Gianni Calamassi. Com’è nata questa collaborazione?
Emanuele Martinuzzi: Man mano che buttavo giù le frasi e che le poesie si materializzavano sotto ai miei occhi continuavo ad avvertire quella sensazione di imperfezione e manchevolezza, che mi aveva accompagnato e che aveva contraddistinto le mie due raccolte precedenti, “Spiragli” e “Storie incompiute”, ciò che scrivevo nella sua vaghezza e nel suo personale simbolismo mi pareva non riuscire a dare corpo a quei luoghi interiori, a cui volevo dare nuova vita. Ho pensato che fosse una cosa che non avevo mai fatto, ma un esperimento interessante in cui imbarcarsi quello di associare ad ogni poesia un dipinto o disegno o illustrazione, in modo che le linee e le forme giungessero dove la mia voce mi sembrava arenarsi. Ho pensato subito di proporre questa cosa al Maestro Gianni Calamassi, che stimo molto umanamente e artisticamente. E lui con generosità e amicizia devo dire che non solo ha accettato subito, ma si è affidato alle mie decisioni e sensazioni, pur avendo più spessore e maturità artistica. Mi ha dato un insegnamento importante, dando fiducia alle mie scelte estetiche, instaurando un creativo connubio tra diverse generazioni e sensibilità, in cui si è ritrovato con lo spirito di sperimentarsi ancora una volta. Addirittura ha disegnato appositamente per questo lavoro tutta la serie delle città abbandonate o spopolate, prendendo spunto da mie fotografie fatte nelle mie peregrinazioni, in uno stile figurativo. Mentre per le città scomparse o distrutte ha donato le sue opere astratte e minimaliste e per le città immaginarie alcuni suoi lavori figurativi con ascendenze simboliste e surreali. Quello che mi onora è che chi avrà modo di leggere questa raccolta potrà fare un interessante excursus nella produzione artistica di questo Maestro fiorentino, con opere che vanno dal 1970 al 2019. Credo già questo esalti di per sé le mie poesie e davvero integrino le loro possibilità espressive con orizzonti insperati.
A.M.: Qual è la città a cui sei più legato?
Emanuele Martinuzzi: Non ho una città a cui sono più legato e non potrei averla per come è nato ed è stato costruito questo libro. Ogni città raccoglie e custodisce un flusso di pensieri, ricordi, emozioni e luoghi sia fisici che interiori, che le lega tra loro in un continuo indistinto. Ogni città evocata dalla poesia e dall’arte in realtà non è solamente quel luogo particolare. Questa raccolta è una sinfonia di linee e parole, silenzi e forme, è venuta fuori così spontaneamente. E poi ogni luogo è associato a una persona, a un gesto a me caro e non potrei scegliere tra questi istanti così importanti dentro di me. Sterlingo, città immaginaria, è per esempio il nome storpiato nei racconti mitologici di mio nonno della collina dove vivevano i suoi avi mezzadri e dove lui tornava spesso a visitare quei verdi paesaggi, in una dimensione per me bambino che ascoltavo queste favole, ancora adesso a metà tra il sogno e la realtà. Perla, città immaginaria citata nel libro “L’altra parte” di Alfred Kubin, è anche il nome della persona a me cara, che mi è stata vicino per diverso tempo e che mi ha raccontato di questo enigmatico scrittore austriaco. Aufugum è la città scomparsa e distrutta, su cui è sorta la città calabrese in cui è nato mio padre e in cui abita ancora una parte importante della mia famiglia e quindi della mia storia personale, legata alle passate generazioni. Luni, antica e importante città distrutta dell’antica Roma, citata da Dante nella Divina Commedia e da cui è sorta la bellissima Lunigiana in cui ho girovagato alla ricerca di bellezze naturali o borghi spettacolari come il borgo medievale di Bagnone. Per esempio le città abbandonate o spopolate che ho visitato personalmente, che hanno ispirato i versi di queste poesie, in realtà non tutte sono citate, mi viene da pensare a Villa Saletta dove è stato girato il film La notte di San Lorenzo dei Fratelli Taviani, o Castiglioncello a Firenzuola, oppure la Chiesa di San Michele Arcangelo che sorge all'interno dell'antico borgo fortificato di Castel di Nocco, sul valico della vecchia strada che ancora oggi unisce Buti e Vicopisano, e così tante altre. Ognuno di questi luoghi con la loro magia ha contribuito ed è presente in questa raccolta, pur nella loro assenza, attraverso l’ispirazione e le parole da essa nate. Anche la tripartizione che si è consolidata nell’evoluzione naturale di questo viaggio, tra città abbandonate o spopolate, città scomparse o distrutte, infine città immaginarie, ha un senso non assoluto, le une sconfinano metaforicamente nelle altre, l’ispirazione dei versi di una città può essere nata dall’incontro di più luoghi fisici o letterari. Il tutto crea un viaggio misterioso e sfumato tra concretezza e sogno, tra interno ed esterno, tra natura umana e storia personale.
A.M.: In “Alba longa” si legge: “[…] È come un filo sottile l’attesa che cuce tra loro/ passanti di nebbia in città future, guance/ di notturni che si coricano nell’altra metà della neve/ come un bisbiglio, un’eresia.// […]” Perché l’anima è una piazza deserta?
Emanuele Martinuzzi: Questo e altri versi non smettono di emozionarmi e tormentarmi ogni volta che mi ricapita di leggerli. C’è un’oscura simmetria in alcune frasi di questa raccolta, completata nel 2019, rispetto alla tragica vicenda della pandemia e delle sue conseguenze per tutti noi. Assolutamente non perché penso che vi sia un afflato profetico in questi versi, sono un semplice e umile amante della poesia, il dono della profezia non mi appartiene, è già tanto se so cosa mi accade nel presente, figuriamoci ben altro. Però credo che la poesia possa sempre parlarci sia del passato che del futuro, in quanto per sua natura, indipendentemente da chi la scrive, si staglia in un orizzonte di senso universale, in cui convergono il cuore, la pancia e la mente dell’umanità e così le sue dimensioni temporali e i suoi spazi interiori. Aver viaggiato in questi luoghi spopolati in tempi ancora immuni da questa assurda vicenda, rende più ancora interessante secondo me la lettura di “Notturna gloria”, perché permette un ripensamento ed elaborazione del presente alla luce del passato, con la speranza di un futuro di ricostruzione. C’è uno spopolamento dei luoghi e uno dell’anima, non-luogo delle utopie, dei sogni. In effetti queste poesie che cosa non cercano di fare se non ricostruire con la bellezza e l’arte luoghi destinati dalla natura e dalla storia all’oblio. La forza della cultura spesso è un opporsi alle forze incontrollate della natura o della violenza. L’anima è una piazza deserta, quando discende negli inferi delle proprie ombre, le figure che passano sono passanti senza volto destinati a una nebbia che non si dirada, in cui la città perde i suoi connotati per scomparire assieme all’individuo. Mi viene in mente anche la poesia Umbriano, su questa città abbandonata immersa nei boschi della bellissima Umbria, che così canta: “[…] gli steli stanno insieme e disuniti, / non per il vento che li urla”. Nel testo si ripete ossessivamente questa frase, stanno insieme e disuniti, e nel rileggerla non posso non immedesimare tutta la sottile e taciuta sofferenza per una necessaria distanza realmente vissuta da tutti noi, si spera più temporanea possibile, in cui solo il vento urla ciò che il cuore non osa dire, attanagliato dalla paura. C’è sicuramente una distanza che rende estranei perfino nella vicinanza, ed è l’indifferenza, la mancanza di empatia. Questo per dire come la poesia dia voce alle ombre del cuore, agli anfratti della mente sofferente o speranzosa, questo è il suo viaggio da sempre.
A.M.: In “Fedora” si legge: “[…] In ogni gesto sembra quasi vivano ancora/ i frammenti di una fragranza antica, la meraviglia/ della campagna che tace nei ricordi, un aroma amaro/ di dolcezza, l’infanzia dei perché.// […]” Perché, oggi, noi esseri umani siamo così distanti dalla meraviglia?
Emanuele Martinuzzi: Credo che la meraviglia faccia parte dell’umanità, della sua parte più fragile, misteriosa e creativa, in cui la ragione si abbandona al sogno, in cui l’infanzia viene custodita in tutta la sua mitologia e la sua creatività. In ogni epoca e in ogni persona c’è sempre un dialogo, uno scontro se non proprio una lotta tra le intenzioni della meraviglia e quelle del cinismo, del disincanto e della perdita dell’incanto con cui guardare alle cose. Viviamo in un’epoca storica, che per svariate ragioni e su molti aspetti è connotata da questa dialettica imperfetta, tra la follia del nichilismo e le ragioni del sogno, della speranza, dell’umanità. Dove il futuro e l’umanità sembrano venire meno la sfida è ancora più interessante e più grande per coloro che, affidandosi alla propria piccola sensibilità come a una fiammella nelle tenebre, decidono di procedere attraverso le tenebre o le incertezze o certe dinamiche anti-umane, affrontando prima di tutto dentro se stessi il nichilismo che pervade il proprio momento storico. Mi viene in mente la bellissima scena del film Nostalghia di Andrej Tarkovskij, girata nelle piscine di acque termali di Bagno Vignoni. Detto ciò questa raccolta con tutti i suoi limiti, che in realtà sono anche i suoi pregi, avverto sempre più nitidamente sia un esempio, non sempre di semplice accesso o immediata lettura, di ricostruzione della meraviglia nei sepolcri della storia. Ci vuole tempo per addentrarsi in queste ombre, è un libro che deve sostare sulla scrivania o sul comodino per molto tempo, riprenderlo, abbandonarlo, darsi tempo e farlo assorbire assieme al proprio vissuto, giorno dopo giorno. Lo si può amare o detestare, a una prima impressione. Un libro del tempo che sedimenta dentro il proprio spirito con lentezza. Una lettura diversa, da donare agli altri. E appunto viene raccontata nei versi e nelle immagini di Notturna gloria la possibilità che l’arte, la poesia e la bellezza possano infondere vita e senso in ciò che apparentemente sembra non averne più, destinato ad essere cosa o maceria, in balia del tempo e delle contraddizioni della natura. E anche che se il tuo tempo storico non soddisfa i tuoi bisogni interiori o risponde alle tue domande più profonde, c’è sempre la possibilità di guardare al passato, riscoprire territori non più calpestati né letti da secoli per guardare le cose da inattuali prospettive. La verità non è data una volta per tutte solo dall’oggi, ma ci abita e accompagna con molti nomi, a volte misteriosi e sconosciuti come i nomi delle città remote di questo canzoniere, a cui va ridato nuovo spessore e nuove vie interpretative. Si può dialogare con ciò che sembra morto e nel dialogo miracolosamente si affaccia una nuova esistenza.
A.M.: Devo confessarti che tra tutti questi borghi solo uno mi è familiare: Erto. Di sicuro avrai intuito il perché… Che cosa significa perdersi “ad ascoltare timbro paterno del vento”?
Emanuele Martinuzzi: La scelta di inserire Erto nelle città abbandonate o spopolate mi sembrava doverosa, non solo per ricordare il disastro del Vajont e di quella tragedia su cui sono stati fatti numerosi dibattiti, processi e opere di letteratura, su cui molti scrittori e uomini di cultura hanno speso le loro idee e il loro ricordo, come per esempio Mauro Corona nel libro Vajont: quelli del dopo, ma ancheper fare un viaggio nel tempo, una sorta di flashback nella Erto abbandonata e spopolata di allora, appena dopo l’avvenuto disastro, ripercorrere quelle emozioni, ridare spessore a quel vuoto allagato di violenza. In quella atmosfera sospesa, in un tormento nuovo e assurdo, comunque spirava il timbro paterno del vento. Nella solitudine più tragica mi piace pensare si possa avvertire lo stesso vento come una voce vicina che ti rincuora, che nel lambirti ti dice sei ancora qua, sei vivo e puoi ricostruire, dare testimonianza. Comunque non solo Erto è uno dei borghi che ci può essere direttamente familiare, ma anche Craco, un bellissimo paese fantasma in provincia di Materna, conosciuto attraverso le immagini che i molti film che sono stati girati là hanno immortalato e reso presente al nostro sguardo, ne cito solamente alcuni “Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini, “La Passione” di Mel Gibson, “Cristo si è fermato ad Eboli” di Francesco Rosi.
A.M.: Causa pandemia le presentazioni letterarie non sono state praticabili ma ho notato che in tanti hanno ben pensato di utilizzare i social network e la modalità video come alternativa.
Emanuele Martinuzzi: Personalmente ho continuato ad usare i social come ho sempre fatto per la diffusione e condivisione della mia passione per la poesia, la scrittura e la cultura in genere, anche quella più frivola o da intrattenimento, attraverso il mio blog e le mie pagine Facebook e Instagram. Per le presentazioni seguendo un po’ la mia indole e la mia timidezza ho preferito per adesso aspettare a osare facendo presentazioni video on line. Non escludo in futuro che possa sperimentarmi anche in questa cosa. Per adesso complice la bella stagione, il fatto che mi sia vaccinato per la mia e altrui sicurezza, e la situazione che va pian piano migliorando riguardo la triste situazione pandemica che stiamo vivendo, dovrei presentare in presentia per la prima volta “Notturna gloria”, durante una rassegna artistica e letteraria nelle colline della mia amata Toscana. Bello è sempre visitare i luoghi, portare la propria poesia e magari riuscire a toccare il cuore degli altri, di amici vecchi e nuovi. La poesia ci mette in contatto gli uni gli altri e con l’invisibile che ci abita.
A.M.: Salutaci con una citazione…
Emanuele Martinuzzi: Non mi viene in mente nessun’altra citazione se non il bellissimo verso di Montale che chiude la sua poesia Casa sul mare, inserita in Ossi di seppia, e che ho voluto porre all’inizio del viaggio di “Notturna gloria” prima della poesia che apre la raccolta Monte Kronio di Sciacca, come a voler significare che questo viaggio di ricostruzione e riconciliazione con le proprie ombre inizia da un approdo sulle sponde dell’antico mare di Sicilia, com’è stato per la colonizzazione greca d’Occidente nella Magna Grecia, per la spedizione dei Mille o lo sbarco in Sicilia degli Alleati.
“Il cammino finisce a queste prode/ che rode la marea col moto alterno./ Il tuo cuore vicino che non m'ode/ salpa già forse per l'eterno.”
A.M.: Emanuele ti ringrazio per le numerose riflessioni che hai espresso e ti saluto con le parole di Aristotele: “Se non esistesse nulla di eterno, neppure il divenire sarebbe possibile.”
Written by Alessia Mocci
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Fonte notizia
oubliettemagazine.com 2021 06 23 intervista-di-alessia-mocci-ad-emanuele-martinuzzi-vi-presentiamo-notturna-gloria