(A. Antonucci)
Privilegio. Così la chiamava la nonna, in arte Lulù, maitresse di un bordello dei primi del ‘900. La chiamava così perché riconosceva in lei un talento straordinario per quel mestiere che si tramandavano in famiglia. Il suo destino sembrava già scritto; lo stesso della madre e della nonna. Ma proprio questa apparente ineluttabilità fa germogliare in lei il seme della follia che cresce fino a distruggere tutto ciò che riconosce come malvagio, sporco. Le dona però anche la possibilità di riscatto e vendetta. Cos’ è però la follia se non una forma di verità non condivisa; un mondo parallelo semplice nella sua verità e terribile nella sua stigmatizzazione.
È con estrema semplicità che Privilegio narra, dal manicomio in cui è reclusa, i fatti crudi, disumani e talvolta surreali che avvengono al suo interno, così come ricorda la sua infanzia con dolcezza ed ironia: i ricordi delle ragazze del bordello; dei suoi primi passi in quell’arte terribile e sublime; la sua conoscenza dell’umana specie da quell’osservatorio insolito e speciale.
Privilegio è una giostra. Una giostra di colori, emozioni, passioni, verità e illusioni.
Una giostra che sembra destinata a fermarsi, data l’inutilità del suo moto ripetitivo e senza scopo. Nel finale la giostra si stacca dal perno che la trattiene, progetta il suo percorso e va incontro alla sua prossima meta. Una meta tragica ed ineluttabile, scelta con grande lucidità ed intelligenza dalla protagonista a dispetto del marchio di inferma mentale che le hanno impresso sulla pelle e nell’anima.