Progettato dall’architetto Luigi Poletti di Modena (1792-1869), legato alla scuola neoclassica purista romana, il Teatro Nuovo di Rimini (così si chiamava all’epoca) era riconosciuto come il suo capolavoro, considerato sullo stesso piano della Basilica di San Paolo a Roma ed uno degli esempi più significativi del superamento del neoclassico della prima metà dell’Ottocento.
Nell’estate 1857 venne inaugurato con una memorabile stagione lirica da Giuseppe Verdi (unico caso in Italia) che presentò una nuova opera, Aroldo, composta per l’occasione.
Chiuso al pubblico per ben 75 anni, a seguito delle lesioni apportate dai terremoti del periodo 1916-1923 e del bombardamento aereo del 28 dicembre 1943 che lo centrò in pieno provocando il crollo del tetto della sala, il teatro -dedicato al musicologo e compositore ‘Amintore Galli’ - è stato restituito a Rimini ed alla cittadinanza riminese il 28 ottobre 2018 allorchè il sipario si è riaperto sulla straordinaria voce di Cecilia Bartoli, mezzosoprano stella della lirica mondiale, che ha presentato Cenerentola in forma semiscenica, accompagnata dai Musiciens du Prince.
L’Amministrazione cittadina ha abbracciato la scelta della restituzione filologica e tipologica volta a mantenere la riconoscibilità dell’intervento ma anche il rispetto per le aggiunte aventi valore artistico che nel corso del tempo sono state apportate. Imponente all’esterno, spicca per raffinatezza negli interni dove i colori privilegiati sono il panna, il crème, l’oro ed il cognac (oltre al rosso rubino delle poltrone della platea).
In questo splendido Teatro ho assistito il 3 gennaio alla replica di ‘Don Pasquale’ (in scena da Capodanno), dramma buffo in tre atti di Gaetano Donizetti (Bergamo, 1797 –1848) nel nuovo allestimento prodotto dal Coro Lirico ‘Città di Rimini Amintore Galli APS’ con il patrocinio e il contributo del Comune, per la regia di Paolo Panizza, la direzione d’orchestra del M° Stefano Pecci, con l’Orchestra da Camera di Rimini e il Coro Lirico di cui sopra curato dal M° Matteo Salvemini.
“Siamo soddisfatti di questo risultato: è un miracolo se si pensa alla situazione di questi giorni – ha dichiarato alla stampa Claudia Corbelli, presidente del Coro Galli, promotore e organizzatore dello spettacolo – Abbiamo navigato a vista, fra la speranza di non ammalarci e i tamponi! C’è stata, da parte di tutti i componenti del cast, una grande energia positiva e una grande disciplina, consapevoli che la riuscita dello spettacolo sarebbe dipesa dal restare in salute tutti. Un’esperienza mai provata prima. I numeri del pubblico (1200 biglietti venduti) non sono stati quelli a cui eravamo abituati. Ma questo è ovvio: le persone non potevano prenotare i biglietti con anticipo non sapendo come si sarebbero evolute la situazione e la propria salute, fra quarantene preventive e vero e proprio contagio. È stato un impegno coraggioso in tutti i sensi, da parte nostra e dell’amministrazione comunale che ci ha affiancato nell’impresa di dare energia a questo Capodanno della Cultura. Nel complesso, quindi, apriamo l’anno nuovo ancora dal palcoscenico, ed è questa la cosa che conta: lo spettacolo deve continuare!’
L’allestimento originale nel quale la tecnologia ha giocato un ruolo da protagonista, coniugando tradizione e innovazione, ha riscontrato l’apprezzamento da parte di tutto il pubblico che ha parimenti apprezzato il cast che annoverava Giuseppe Esposito, basso comico, nel ruolo del titolo, ‘vecchio celibatario tagliato all'antica, economo, credulo, ostinato, buon uomo in fondo’; Daniele Caputo, baritono (Dottor Malatesta, faceto, intraprendente, medico e amico di Don Pasquale ed amicissimo di Ernesto); Christian Collia, tenore (Ernesto, nipote di Don Pasquale, giovane entusiasta, amante corrisposto di Norina), Giulia della Peruta, soprano (Norina, giovane vedova, vivace e impaziente ma schietta ed affettuosa); Riccardo Lasi, basso (il notaro). Su tutti spicca, secondo me, la voce dell’intrigante Norina.
Il libretto dell’opera, firmato da Michele Accursi, è stato scritto in realtà dallo stesso compositore e da Giovanni Ruffini ed è ricalcato sul dramma gioioso di Angelo Anelli ‘Ser Marcantonio', musicato da Stefano Pavesi nel 1810.
La controversia sull'attribuzione del libretto può essere definita un vero e proprio ‘bisticcio politico’: Ruffini era un mazziniano, una delle anime della ‘Giovine Italia’, esiliato in Francia dove il clima sociale in quegli anni era estremamente cosmopolita: il mondo della cultura era in fermento e Parigi era il luogo ideale per l'incontro tra le posizioni politiche e culturali più disparate.
Durante la stesura del ‘Don Pasquale’, quella che
poteva diventare una lunga e fruttuosa collaborazione tra Ruffini e Donizetti,
si trasformò in un calvario per entrambi: Ruffini si risentiva per ogni richiesta o cambiamento in corso,
richieste dal musicista mentre Donizetti, d'altra parte, con grande puntiglio
faceva rispettare il suo diritto a richiedere nuovi versi o rifiutare quelli che non riteneva adatti. La
diatriba finale riguardò l'allestimento ed
i costumi dell'opera: Donizetti li pretendeva moderni, pur essendo l'opera un
rifacimento di un libretto del 1810.
Ruffini montò su tutte le furie e si rifiutò di firmare il libretto. A dirimere la bagarre intervenne Michele Accursi (amico del compositore), che propose di apporre le proprie iniziali sullo stesso.
Per questo motivo, il
libretto originale risulta a firma di ‘M. A.’.
Questo stratagemma favorì anche lo stesso compositore:
in Italia, infatti, mal sarebbe stato accolto un libretto firmato da un esule
politico condannato a morte, rifugiatosi in Francia.
Ormai giunto al culmine della celebrità (aveva già composto le sue opere più famose, tra cui Anna Bolena, L'elisir d'amore, Lucia di Lammermoor, La Favorita e La figlia del reggimento), Donizetti decise di comporre il ‘Don Pasquale’ dopo la lettura casuale del vecchio libretto di Angelo Anelli. La storia vuole che l'opera sia stata composta in soli undici giorni,, anche se è probabile che in questo periodo siano state composte soltanto le linee vocali e che l'orchestrazione abbia richiesto altro tempo.
La prima rappresentazione ebbe luogo con successo nella Salle Ventadour del Théâtre-Italien di Parigi il 3 gennaio 1843 con un cast d'eccezione formato da Giulia Grisi (Norina), Luigi Lablache (Don Pasquale), Antonio Tamburini (Malatesta), Mario (Ernesto) e Federico Lablache (notaio) alla presenza del compositore.
Al Teatro alla Scala di Milano si svolse, invece, la prima esecuzione italiana, il 17 aprile successivo: era diretta da Eugenio Cavallini con Achille De Bassini nel ruolo del titolo.
Per saperne di più, affidiamoci alle preziose note di regia di Paolo Panizza:
“Il Don Pasquale, capolavoro di un Donizetti già affermato a livello internazionale, maturo e ormai di stanza a Parigi, è un’opera molto raffinata e giocata dal compositore su diversi livelli.
L’autore la definisce, nella partitura, ‘dramma buffo’ ma va ben oltre l’opera di genere: non più maschere di un meccanismo collaudato ma veri e propri personaggi di un dramma borghese raccontato in chiave comica. Sia ben inteso che il buffo c’è e anche il divertimento è assicurato ma esso è temperato da momenti romantici, drammaturgici e musicali e da una raffinatezza di scrittura che inverte i nostri sentimenti, facendoci prima stare dalla parte degli ingannatori e poi da quella dell’ingannato. Il buffo, il comico, si trasformano pian piano in umorismo e il lieto fine non è da favola, ma da commedia agrodolce.
A me ricorda il finale di Così fan tutte di Mozart, dove finisce tutto bene nel senso che la morale ci insegna ad accettare la nostra difettosa umanità, anche quella dei piccoli peccati dettati dalla testa, che invecchia molto spesso più tardi del corpo.
L’allestimento di quest’anno, per intuizione del Coro Galli di Rimini, non avrà scenografie tradizionali, cioè costruite, ma un avvolgente mondo creato da proiezioni, permettendomi di raccontare questo capolavoro in forma tradizionale, a me cara quando ben reinterpretata, ma con un linguaggio visivo moderno; mischiando, come Donizetti amava, un genere collaudato con accenti contemporanei e vicini a chi ne goda. Viviamo in un mondo di schermi che spesso subiamo: la speranza è di trasformarli in veicoli di sogno e cultura, di gioia e anche spensierata riflessione. Il telecomando e il touch screen, questa volta, li lasciamo però rigorosamente alle immortali e deliziose note, suonate dal vivo, del Maestro Donizetti.’