NEW OUTLET OFF LINE SRL ROMA Nel corso del ventesimo secolo, uno dei grandi meriti della moda (e della fotografia di moda) è stato quello di aver giocato un ruolo fondamentale nel rendere popolare l’arte, contribuendo a disseminare motivi artistici nei gruppi sociali che più difficilmente erano a contatto con le varie esperienze artistiche.
Molte case di moda di haute couture, come ad esempio Dior, Chanel, Jean Paul Gaultier, Louis Vuitton, collaborano oggi con artisti non solo nella realizzazione dei loro capi, ma anche nella esecuzione delle campagne fotografiche, negli allestimenti delle sfilate e nella promozione della collezione. Il caso di Dior è forse quello più emblematico. Christian Dior, fondatore della maison che porta il suo nome, era un estimatore dell’arte, amico di molti nomi importanti delle avanguardie del primo Novecento: Salvador Dalí, Pablo Picasso, Juan Miró, Max Ernst, Giorgio De Chirico. Il connubio arte- moda è sempre stato presente nella storia della casa di moda, da Marc Bohan che nel 1984 aveva realizzato una collezione basata sulle opere di Jackson Pollock, a Gianfranco Ferré, direttore creativo Dior nei primi anni Novanta, le cui collezioni si ispiravano apertamente a Tiziano, Rembrandt, Cézanne, a John Galliano che aveva reinterpretato Gustav Klimt nel 2008, fino ai direttori creativi negli ultimi dieci anni, Raf Simons e Maria Grazia Chiuri, che hanno stretto collaborazioni con artisti come Sterling Ruby, Pietro Ruffo, Marinella Senatore, Sharon Eyal, Paola Mattioli, Matteo Garrone.
Gli abiti di Marc Bohan ispirati a Jackson Pollock (1984)
Gli abiti di John Galliano ispirati a Gustav Klimt (2008)
Se è vero che la moda ha cercato quasi sempre di costruire dei canali di confronto con l’arte, per quest’ultima la moda ha rappresentato un terreno di dibattito critico che molte volte ha portato a rimarcare il suo ruolo altro, soprattutto in termini di commercializzazione.
Il dibattito fra arte e moda, fondamentale per i movimenti artistici del Novecento, ha avuto la sua prima espressione nel 1863, quando Charles Baudelaire, nel suo saggio Le peintre de la vie moderne, in cui concepisce per la prima volta l’idea del flâneur, fa riferimento alla “gravità nel frivolo” (“gravité dans le frivole”) e suggerisce una nuova consapevolezza sulla moda come paradiso artificiale con cui vestire nella modernità. La moda come atteggiamento moderno: come modo di pensare, sentire e agire nella modernità, con evidente allusione al lavoro di Charles Frederick Worth, il primo a costituire una maison couture a Parigi nel 1858. Con uno sguardo anticipatore sui tempi, Baudelaire aveva ben compreso che da lì a poco il fenomeno della moda avrebbe in un certo senso reso maggiormente popolare e commerciale il lavoro degli artisti.
Le avanguardie storiche e i movimenti culturali del primo Novecento hanno spesso e volentieri dialogato con la haute couture, seppur questo dialogo sia sempre rimasto marginale all’interno della storia e della critica d’arte. Non sempre ci si ricorda, infatti, che i futuristi avevano scritto due manifesti a riguardo: Il vestito antineutrale (1914) e Il manifesto della moda femminile futurista (1920), a cui lo stesso Giacomo Balla aveva dato un importante apporto.
Un altro esperimento di combinazione tra arte e moda è stato intrapreso dalla pittrice Sonia Delaunay, la cui Boutique Simultané (organizzata in collaborazione con il couturier Jacques Heim) fu presentata nella sezione moda dell’Esposizione Internazionale del 1925 a Parigi. L’ intento della pittrice era quello di tradurre i suoi dipinti in tessuti e indumenti destinati a incapsulare la frenesia della modernità. Non meno importante da parte della Delaunay è stato il suo contributo per i costumi del primo spettacolo Dada di Tristan Tzara, Le Coeur à gaz, nel 1923, che poco piú di cinquant’anni piú tardi avrebbe ispirato abiti indossati da David Bowie e Klaus Nomi.
Anche Salvador Dalí, esponente del Surrealismo, aveva collaborato negli anni Trenta con Elsa Schiaparelli per la quale aveva disegnato il “cappello-scarpa” (1937), il “vestito d’organza con aragosta” (1937) e l’“abito lacrima” (1938).
Sociologi e critici culturali come Georg Simmel e Walter Benjamin hanno scritto sulla moda affermando come questa fosse uno dei mezzi principali con cui la modernità si manifesta, così come contribuisce a costruire la propria identità e lo “spirito del tempo”.
I costumi di Sonia Delaunay per Le coeur à gaz di Tristan Tzara (1923)
Elsa Schiaparelli e Salvador Dalí, Abito aragosta (1937)
Elsa Schiaparelli e Salvador Dalí, Abito lacrima (1938)
Due sono i punti di non ritorno nel rapporto fra arte e moda ed entrambi sono legati a due riviste: nel primo caso è l’opera d’arte che viene rappresentata su una rivista di moda; nel secondo è un capo di haute couture che compare per la prima volta su una copertina di una delle riviste più importanti d’arte contemporanea degli ultimi cinquant’anni.
Il 1951 è l’anno in cui la fotografa Cecil Beaton realizza un servizio fotografico per la rivista Vogue, presso la galleria Betty Parsons di New York, di fronte a due dipinti versati di Jackson Pollock, che in questo caso fungono da sfondo per la presentazione dell’ultimo abbigliamento femminile. Lo storico dell’arte T.J. Clark ha criticato molto duramente questo tentativo di riferire l’arte all’industria culturale che Vogue e il mondo della moda rappresentavano. Nei primi anni Sessanta, la riflessione sull’arte commerciale e sulla moda che diventa arte venne approfondita grazie alla cultura “pop” e ai suoi artisti che cercarono di azzerare la distinzione tra cultura alta e bassa, rifiutando volutamente di distinguere tra un disegno per un capo di moda e l’opera d’arte in sé, come avvenne nel caso di Andy Warhol e del suo The Souper Dress (1961). Il dibattito si incentrava su qualcosa da cui l’industria della moda poteva trarre beneficio e con cui l’arte avrebbe alla fine avrebbe dovuto competere.
Il 1982 è stato l’anno in cui sulla copertina di Artforum International comparve un abito dello stilista giapponese Issey Miyake. L’editoriale di quel numero aveva le firme della scrittrice americana Ingrid Sischy e del critico d’arte italiano Germano Celant, che affermavano che la moda poteva essere considerata un nuovo tipo di “produzione artistica che mantiene la sua autonomia mentre entra nella cultura di massa al confine indistinto di arte e commercio” (Artforum International, Editoriale, Febbraio 1982). Entrambi avevano compreso che era stata la pop art ad aver abbattuto per prima le gerarchie tra “alto e basso, puro e impuro” e “l’inutile e l’utile”.
A partire da questo riconoscimento ufficiale sulle pagine della rivista d’arte contemporanea, alcuni capi di haute couture che ormai erano diventati storici, come quelli di Yves Saint Laurent realizzati nel 1965 e basati sulle opere di Piet Mondrian, íniziarono ad essere esposte ed acuistate dai musei d’arte contemporanea come avvenne nel caso del Met e della retrospettiva su Yves Saint Laurent nel 1983.
Una delle fotografie di Cecil Beaton per Vogue (1951)
Andy Warhol, The Souper Dress (1966-1967; New York, The Metropolitan Museum)
La copertina di Artforum International del febbraio 1982
L’abito di Yves Saint Laurent ispirato a Mondrian. Foto di François Larry
Melissa Marcello, La guerriera, autoritratto (2021)
Melissa Marcello, Natura (2020)
Melissa Marcello, Red (2020)
Parallelamente anche la fotografia di moda ha ricevuto una crescente attenzione, con diverse importanti mostre, come quella al MoMA nel 2004. Questo ritardo di esposizione rispetto alla “fotografia d’arte” dimostra come ci sia voluto molto tempo prima che la fotografia di moda fosse considerata una forma d’arte. Molto spesso è stata esclusa dalle grandi rassegne fotografiche perché considerata troppo commerciale. Oggi è importante considerare come, nella misura in cui la fotografia di moda è sempre più accettata come arte, la moda stessa sembra muoversi gradualmente verso la stessa direzione.
In questi ultimi anni, si assiste a un sempre maggiore interesse da parte dei fotografi di moda verso il mondo della fotografia d’arte con l’intento di abbattere le differenze fra “fotografia alta” e “fotografia bassa”. Il medium viene utilizzato da artisti fotografi professionisti per le campagne di moda (come il caso già citato di Paola Mattioli per Dior), ma anche da fotografi emergenti per progetti che uniscono arte pittorica, haute couture e fotografia come quello di UTPICTURA della fotografa di moda di base a Milano, Melissa Marcello. UTPICTURA unisce arte e alta moda, reinterpretando il passato in modo attuale con l’intento di destrutturare il ritratto fotografico per ottenere un’immagine nuova, materica, che racchiude solo un ricordo del mondo passato, senza esserne una copia fedele. Fra gli scopi del progetto di Melissa Marcello c’è proprio quello di rendere la ritrattistica, che dal punto di vista artistico è sempre stato un genere elitario, accessibile alle masse, dando a tutti la possibilità di farne parte.