Pensandoci bene, cosa potevamo aspettarci da un regista che ci ha donato cinquant'anni di carriera cinematografica, distillando ogni sfumatura della sua umanità, riversata in un mestiere che più ti mostri per quello che sei e migliore è l'artista che meriti di essere celebrato? D'altronde, per Allen, il cinema è sempre stato quell'emozione intelligente che si risolve in un contro tempo della risata, proprio come quello swing che traspira da ogni frammento di quel suo ennesimo capolavoro, Cafè Society. Il miracolo di Midnight in Paris si è ripetuto, raccontando un viaggio nel tempo attraverso la dialettica degli attori che meravigliosamente assorbono le nevrotiche ansietà dell'autore. Per Owen Wilson è stato un magico trasporto verso quella “Generazione perduta” degli anni venti in una Parigi popolata da artisti che hanno celebrato il meglio dell'arte mondiale, da Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Salvador Dalì e Picasso, in quel passaggio offerto al rintocco di una mezzanotte incorniciata dalle atmosfere bohémien di una capitale parigina sospesa tra i sogni del protagonista.Qui, è un giovane Jesse Eisenberg a farsi portavoce di un regista che si racconta ancora una volta, con i suoi ottantaseianni che non dimostra, almeno cinematograficamente, anzi migliorandosi regalandoci il primo film girato in digitale, incorniciando i protagonisti in quella fotografia impreziosita da Vittorio Storaro, sin dalla prima inquadratura, tra le architettoniche luci dello star system di una mecca del cinema nella sfavillante epoca d'oro degli anni trenta. Eccolo ancora lui, terzogenito di una famiglia ebrea del bronx, umile orologiaio che aspira a qualcosa di meglio della vita di bottega del padre, con un fratello (Ben, interpretato da Corey Stoll) famigerato che non riesce a districarsi dalla malavita che ha deciso di abbracciare sin da adolescente, e una sorella sposata a un filosofo metodista che non conosce tentazioni se non la devozione prosaica verso la moglie. Inizia così un viaggio verso le proprie aspirazioni artistiche, annacquate da una “latitanza” che cerca disperatamente di staccarsi da dosso, forse per colpa di una famiglia che non vuole credere alla determinazione di chi cerca solamente di risolvere la propria esistenza cercando di migliorarla con un lavoro un po' troppo sopra le righe. Troverà lo zio Phil (interpretato da Steve Carell), indaffarato e famoso agente di Hollywood, tra autori e attori che non riusciranno a distoglierlo da quel primo incontro con la segretaria Vonnie (una ritrovata Kristen Stewart), inconsapevole di un destino che si perderà nelle decisioni problematiche dei protagonisti. La giovane venticinquenne, amante dello zio, che si lascia andare tra le braccia dell'ingenuo nipote, per poi decidere di sposare il primo, mentre il giovane senza speranze trova moglie (Veronica, interpretata da Blake Lively), senza dimenticare il volto di quel grande amore. Il risultato della formula è sempre lo stesso, ovvero l'impossibilità di conciliare ragione e sentimento, dovendo adottare la soluzione più infelice per continuare a vivere una vita che ci ha offerto il meglio, ma che può sempre ritornare, regalandoci un sorriso che si abbandona alla speranza di chi non vuole rinunciare a credere ai propri sogni. Per noi comuni mortali, non ci resta che ringraziare ancora una volta Woody Allen per una ennesima pagina di cinema che merita di essere ricordata, come i meriti di un Radio Days che ci trasporta nella malinconia di chi ha vissuto gli anni di un cambiamento che rimarrà incancellabile, come ogni generazione che si ricicla nei decenni che scrivono la storia della nostra vita.
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vannucci-dicinema.blogspot.com 2022 09 woody-allen-una-metamorfosi-di.html