Se la morale della società dovesse essere misurata con l’identificazione di un dialogo recitativo che ha l’unico scopo di abbattere ogni barriera razziale determinata dalla pelle, dalla religione e dalla cultura, non ci sono dubbi su quello che nel film di Stanley Kramer viene innalzato in assoluto come principio di massa. Considerando l’epoca in cui è stato girato, alla fine degli anni sessanta, la società iniziava già a risentire di quello che lo stereotipo della diversità non rappresentava più la vergogna di una ostentazione, ma il bisogno di essere sempre più emancipati nei confronti di una verità, di una convivenza libera nel rapporto di una società che negli sbagli del passato ha sempre saputo trarre giovamento. Non è stata l’America puritana a voler affermare lo spirito integro di un messaggio morale, ma la consapevolezza data dall’intelligenza che è capace di stabilire il valore degli uomini, a prescindere dalla loro diversa pigmentazione. La stessa parola usata da Spencer Tracy, in quel monologo finale capace di sciogliere i cuori di ogni ostinato moralista, nella evidente e sincera commozione di Katharine Hepburn, in quel trasporto deliziato dal compassionevole coinvolgimento dei protagonisti.
L’amore ostinato di due persone capaci di essere se stesse, fondendo quelle individualità che rimangono radicate nel dogma stesso della propria diversità. Non esistono frasi di circostanza. Non servono più scrupoli forgiati nell’intolleranza, figlia di quella paura nello scoprire se stessi.
Sidney Poitier e Cecile Kellaway sono stati i primi testimoni di quella affermazione, che nella commedia ha avuto il merito di essere grande cinema.
Dopo circa vent’anni, Steve Miner ha avuto il delicato compito di riproporre quel dialogo, accostando un linguaggio cinematografico che è diventato l’emblema stesso di quella generazione X, delineata dai caratteri giovanili che hanno affermato la nuova Hollywood.
C. Thomas Howell e Rae Dawn Chong, hanno rappresentato quel passaggio di testimone, in uno spessore di ruoli lasciati alla modernità di uno stile interpretativo che ha delineato indubbiamente la commedia americana degli anni ottanta.
Un’impostazione di ruoli sicuramente meno drammatica, ma ugualmente definita nella sua morale e nei tempi di recitazione. Soul Man ha avuto indubbiamente questa grande qualità, nel coinvolgere l’etica nell’unica intenzione di annullare ogni preconcetto ormai senza nessuna importanza.
Un uomo che conosce se stesso, vivendo la condizione della stessa diversità.
Indubbiamente, l’America ha da sempre avuto il primato di saper rappresentare quel conflitto razziale, nato da quella stessa convivenza che nel crogiolo di razze ha saputo attingere la stessa patria della cinematografia mondiale. Quell’America che ha visito nascere l’affermazione di tanti attori di colore, che hanno annullato il pregiudizio con la propria indiscussa capacità artistica, e che noi oggi abbiamo il privilegio di elogiare.
Ti presento i miei genitori
Non ci sono esitazioni nel ritenere lo stereotipo del conflitto razziale, una delle più profonde e autentiche fonti da cui trarre ogni tipo di “denuncia sociale”, dall’arte espressa nella cinematografia e da ogni estremo ad essa associata. Se dai tempi nostalgici di “Via col Vento”, l’eloquenza verbale si poneva all’infinito, facendo diventare fin troppo caricaturale la subordinazione afroamericana, di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, per la fortuna di tutti noi, come riconoscimento nel diritto stesso determinato dalla crescita di una società che vuole essere fiera di ciò che ha dovuto costruire, nel complesso cammino fatto di sbagli e di conquiste.
Per fortuna, dopo circa un lustro di “moderna civilizzazione”, sappiamo distinguere l’ipocrisia commerciale di ciò che facilmente rimane prodotto o pura sostanza. Questo non vuole assolutamente dire di essere criticamente inflessibili su quello che ci viene offerto come mezzo di paragone, ma indiscutibilmente siamo dipendenti e fragilmente influenzabili da tutto ciò che passa come fenomeno di costume, in una società sempre più modernizzata al limite della tecnologia, estremizzando in ogni maniera possibile quella barriera che nessuno vuole riconoscere più.
I sentimenti diventano, in assoluto, quella scintilla capace di innalzare ogni ostinata battaglia morale, dove la quotidianità diventa la diretta conseguenza di quella denuncia fatta di comune emancipazione, nelle scelte di vita e, principalmente, con chi viverla.
Il colore della pelle diventa inevitabilmente di poca importanza, là dove il pregiudizio diventa essenzialmente un principio morale e nulla di più, dove ogni uomo ha da sempre convissuto con la ferma convinzione di essere uomo come tutti, dove l’intolleranza è solo il proprio senso del ridicolo radicato nella poca intelligenza.
Soul Man e Indovina chi viene a cena? rimangono quindi due piccoli capolavori nati dallo stesso principio, non come vittimistica denuncia, ma come ferma e riuscita determinazione nel lasciarci alle spalle gli stessi grotteschi preconcetti che hanno solo danneggiato il buonsenso di una società che ci vuole sempre più bene. A prescindere dal colore della pelle.
Fonte notizia
vannucci-dicinema.blogspot.com 2022 09 indovina-chi-viene-cena-soul-man.html