By Nicoletta Evangelisti 27 Maggio 2021 37 Share
Se c’è un amante vero, oltre che conoscitore profondo del gusto e della bellezza Made in Italy nel mondo, quello è Giuseppe De Girolamo, firma di punta del quotidiano napoletano il “Roma”, oltre che di numerose testate periodiche e online, decano dei giornalisti che da anni seguono le manifestazioni di IEG del food & beverage. Nominato Cavaliere dal presidente Pertini, sono decine gli attestati, i diplomi e le coppe che “Peppino” ha ottenuto negli anni, da parte di numerose associazioni del turismo e del food & beverage, tra queste il “Gloden Helm” Timoniere d’Oro del turismo nel mondo, tessere e diplomi di socio onorario di: AMIRA, AIBES, ADA, FIC, AIS, APN, la “Penna d’Oro per l’enogastronomia” di APCN (Associazione Provinciale Cuochi di Napoli), il riconoscimento con fascia e diploma dell’Ordine Internazionale dei discepoli di Auguste Escoffier, la nomina a prefetto per la Campania per l’Accademia Italiana di Gastronomia Storica, e a quella di ambasciatore per la Campania del DOC Italy dell’ANDI. Ed è recente l’intronizzazione ad ambasciatore internazionale della Pizza, per la “Repubblica Internazionale del Pizzaiolo”.
Lei scrive di food Made in Italy da decenni. Che cosa significa per lei il gusto italiano del food?
Per me si tratta di una mission per valorizzare i numerosissimi prodotti tipici di eccellenza che l’Italia vanta in tutte le sue regioni e che sono irriproducibili altrove per le particolari condizioni climatiche che tante zone del nostro Paese posseggono, insieme ai terreni diversi ed unici, che permettono con l’impegno di allevatori ed agricoltori quel Made in Italy che altrove può essere copiato, in alcuni casi anche bene, ma che per i buongustai che conoscono la valenza del Doc Italy, rimane insostituibile. Io credo di aver contribuito per tanti anni, con i miei articoli e i miei impegni, a creare un’immagine sempre più positiva e costruttiva del food italiano.
De Girolamo, per chi come lei è un grande conoscitore del food italiano, ma soprattutto campano e napoletano, quanto è importante il patrimonio partenopeo per la nostra cultura gastronomica?
I campani, e i napoletani in particolare, sono persone creative e hanno sempre creato tante cose che poi altri hanno conquistato con il loro potere economico. Da Napoli, è partita la grande cucina con i Monsù, dalla nostra regione sono partiti, imbarcati su transatlantici e per l’estero, i nostri validissimi maestri del gelato, i pasticcieri e gli chef. La pasta di Gragnano è nota ed apprezzata nel mondo come una volta i nostri pomodori San Marzano, ora in lenta ripresa o i pomodorini del Piennolo del Vesuvio, veramente prodotti esclusivi come i particolari “Cozzolino”, una specie in estinzione riportata su con passione da Davide Valletta a Somma Vesuviana. E ancora la nostra mozzarella di bufala campana dop, i nostri formaggi come il provolone del Monaco dop dei monti Lattari, le alici di Cetara e la loro colatura, la nostra pizza napoletana STG assieme all’arte del pizzaiuolo, riconosciuta dall’Unesco come bene immateriale dell’Umanità insieme alla dieta mediterranea scoperta e valorizzata a Pioppi da Ancel Keys e portata in insegnamento anche all’università del Minnesota.
E poi ci sono i vini, che risalgono addirittura al tempo dei greci e dei romani. Oggi qual è la situazione vitivinicola?
È vero, il nostro patrimonio vitivinicolo, con i suoi tanti vitigni portati da greci e romani sulle nostre coste e poi diffusi e valorizzati nel modo, è stato per molti anni addormentato nelle conoscenze, ma per fortuna, grazie anche all’opera di Raffaele Beato, direttore dell’ERSAC, organo per lo sviluppo agricolo in Campania, negli ultimi decenni sta conquistando sempre di più i palati di tutto il mondo. La ripresa ha infatti dato vita a numerosi vini di prestigio che, oltre il vanto delle nostre 4 DOCG, hanno ampliato la sfera di vini di eccellenza campana a 15 Doc (complessivamente 19 marchi di eccellenza) ai quali si aggiungono le 10 Igp, sempre più apprezzati, non solo dai buongustai italiani, ma da quelli dell’intero
Torniamo alla sua passione per il giornalismo, ci racconta com’è nata?
Lavoravo per i Servizi Telefonici a Napoli e, uscendo solitamente dal lavoro a mezzanotte, con altri colleghi andavo a mangiare alla vicina buvette del quotidiano “Roma”. Una sera non volli prendere nulla da mangiare, pur avendo fame. Addirittura quando un collega mi propose un tramezzino espressi un senso di disgusto. Mi si avvicinò un signore che mi chiese come mai non mangiavo nulla ed io gli risposi: “non ho fame”. Il tono e il mio gesto lo colpirono e, con gran serenità, mi chiese: “Ma lo sa chi sono io?” E io risposi: “In verità no!” Lui replicò: “Sono Alberto Giovannini, il direttore di questo giornale, le posso chiedere di venirmi a far visita domani mattina verso le 11?”. Gli promisi di sì e al mattino, puntualmente, mi recai al 4° piano del “Roma”, e lo incontrai. Lui mi disse: “Ora che siamo soli, vuoi dirmi perché non hai preso da mangiare ieri sera al bar?” Io, ancora più impaurito, risposi: “A dire il vero non mi ispiravano tanto quei tramezzini ed anche altro”. La risposta del direttore fu: “Bravo! La penso anch’io così e ti chiedo di poter avere il piacere di andare a pranzo insieme”. Lui, romano, soggiornava al Grand Hotel de Londres in piazza Municipio e mi portò al ristorante da “Ciro a Santa Brigida”. Era iniziata la mia avventura nel giornalismo, perché a fine pranzo il direttore mi chiese di scrivergli un articoletto e, di fronte alle mie perplessità – avevo scritto solo qualche articolo sul giornalino scolastico, quando frequentavo il Liceo! – mi disse di non preoccuparmi e di scrivere comunque qualcosa e portarglielo il mattino dopo. Gli portai il mio scritto, mi corresse alcune cose e mi diede il primo di una serie di insegnamenti che sono continuati negli anni. Mi invitava spesso a pranzo e molte volte anche a cena alla Löwenbräu, ristobirreria del Gran Hotel de Londres, dove raccontava anche qualche episodio vissuto nel corso della giornata, che poteva diventare un articolo o un vero e proprio scoop. Questa bella avventura, che mi permetteva di scrivere di tanto in tanto articoli sul “Roma”, durò fino al 1967, quando Giovannini andò via, per poi riprendere nel 1976 con il suo ritorno a Napoli. Pur essendo divenuto un dirigente dell’Azienda di Stato per i Servizi Telefonici, continuai a titolo gratuito e per passione a scrivere articoli su turismo, spettacolo ed ancor più enogastronomia, pubblicati anche da “Il Mattino”, “Napoli Notte”, “Il Giornale di Napoli” e riviste settimanali come “Il Gazzettino di Napoli” e “Il Settimanale”. Dal 1992 mi sono dedicato totalmente al mestiere di giornalista e scrivo, oltre che per il “Roma”, per “Politica Meridionalista”, “Travel Marketing”, “Dossier Italia”, “L’Avanti”, “L’Opinione”, “Events&Stars” e diverse testate giornalistiche on line. Da anni sono anche il referente per la regione Campania della rivista “La Madia Travelfood”.
Da dove deriva la sua passione per le fiere?
Le fiere mi hanno sempre attratto tanto e devo dire che le ho seguite un po’ tutte, soprattutto quelle dedicate al turismo ed all’alimentazione. La fiera di Rimini è stata una di quelle che mi ha sempre attratto, perché con le sue specializzazioni espositive offre il meglio dell’Italia e del mondo. Con lo spostamento nel nuovo quartiere, poi, mi resi conto che era divenuta la fiera che dava segnali di maggiore espansione. Ricordo ad esempio la prima edizione di “Pianeta Birra” nel 1999, ancor prima il “Sigep” per il food, la pasticcertia, la panificazione, il gelato e poi anche il caffè. E poi, in anni recenti, la nascita di Italian Exhibition Group e l’integrazione con Vicenza. In 60 anni di attività avete saputo rendere le vostre manifestazioni punto di riferimento per i rispettivi comparti produttivi. Il vostro impegno in questo periodo di pandemia è stato grandioso, e avete contribuito, grazie al web, a mantenere vivi i contatti e la discussione sull’import e l’export del Made in Italy.
Come immagina il futuro post pandemia dei nostri settori?
Dopo la pandemia ci sarà un cambiamento delle dinamiche dell’export agroalimentare italiano, al quale altri dovranno adeguarsi, mentre chi come IEG ha già investito in sostenibilità, digitale e comunicazione, potrà più facilmente e rapidamente conquistare nuove mete, adattandosi a gusti e abitudini di nazioni dove continuare o addirittura iniziare ad esportare i prodotti Doc Italy. Mi auguro che i fondi per la quota dedicata a questo settore vengano al più presto svincolati dai de minimis anche per l’Italia e possano essere spesi nel migliore dei modi per la ripresa delle attività fieristiche di grande spettro e che la necessaria digitalizzazione, sviluppatasi nel periodo pandemico, possa ampliare la formazione di tutti gli operatori del settore, offrendo anche nuove esperienze ed una ancor più ampia comunicazione, che attraverso il lavoro dei media riesca sempre più ed ancor meglio a diffondere nel pianeta la stupenda immagine dell’Italia, Paese che in tanti casi riesce ad essere la prima nazione al mondo.
Fonte notizia
www.iegexpomagazine.com una-questione-da-bongustai