Nel mare di Lampedusa è tornata la Foca Monaca. Un’occasione inesorabilmente rara, ultimamente, da quando questo animale dal sangue caldo, che in passato era molto diffuso nel Mediterraneo, è stato praticamente spazzato via nelle nostre acque dagli anni ’60.
La foca monaca mediterranea (Monachus monachus Hermann, 1779) è un mammifero pinnipede della famiglia delle foche.
È una specie in pericolo di estinzione, di cui meno di 700 esemplari sopravvivono in natura.
Le caratteristiche somatiche della foca monaca sono simili a quelle di altri Phocidae: corpo allungato, irregolarmente cilindrico, ricoperto da uno spesso strato adiposo, coperto da un pelo corto e fitto, vellutato, impermeabile all’acqua. La pelliccia è nera nel maschio o marrone o grigio scuro nella femmina, più chiara sul ventre, dove può arrivare al bianco nel maschio.
Gli arti anteriori sono trasformati in pinne, mentre quelli posteriori formano un’unica pinna posteriore.
Ha una lunghezza da 80 a 240 cm e può raggiungere i 320 kg di peso; le femmine sono un po’ più piccole dei maschi.
Ha una testa piccola e leggermente appiattita e orecchie esterne prive di orecchietta. Il muso è dotato di alcuni lunghi e robusti baffi, chiamati vibrisse.
L’esistenza della foca monaca avviene prevalentemente alla deriva; durante il periodo rigenerativo si spinge verso i tratti di mare vicino alle coste, dove cerca rive marine disimpegnate, stabilendosi principalmente in caverne o piccoli anfratti aperti proprio dall’oceano, in quanto il trasporto e l’allattamento avvengono solo a terra.
Sonnecchia a livello superficiale nell’oceano indomito o utilizzando piccoli anfratti sul fondo del mare, e poi occasionalmente risale per rilassarsi. Beneficia di molluschi cefalopodi, patelle, crostacei e pesci, in particolare bentonici, per esempio, murene, corvine, cernie, dentici e rane pescatrici.
In ogni caso, durante le soste a terra, la foca rimane vicino al mare, anche per il fatto che i suoi sviluppi sono moderati e fuori rotta.
Queste foche si spostano anche di molti chilometri ogni giorno in cerca di cibo, con immersioni costanti; sono stati registrati salti fino a 90 metri di profondità, ma quasi certamente, possono senza molto tratto superare i due o trecento metri di profondità, durante le immersioni fatte per cercare una preda.
Eppure, il “Vitello di mare” (come era stato chiamato in precedenza), o “Vòio marinu” (“Blue marino”) come lo chiamano gli abitanti di Lampedusa, ha un legame antico con l’isola. Nel 1832 il botanico Giovanni Gussone rivelò che a Lampedusa “in certe caverne della costa ci sono vitelli di mare”. Nel 1843 il capitano della fregata Bernardo Sanvisente scrisse in una sua relazione che a Lampedusa “le foche, oscenamente chiamate vitelli del mare, riposano nelle caverne situate nella parte orientale”.
Pur essendo la “casa” delle tartarughe caretta, che abitano costantemente sulle rive del mare delle Pelagie, in questo mare è regolarmente possibile apprezzare i delfini e, in certi periodi, anche l’ingresso delle balene. Attualmente è stata localizzata la Foca Monaca.
“È un’occasione straordinaria – dice il presidente civico di Lampedusa e Linosa Totò Martello – che se da un punto di vista ci dà energia, contemporaneamente afferma che la nostra isola e il nostro mare continuano a essere un miracolo della natura”. Un’occasione inesorabilmente rara, ultimamente, da quando questo animale dal sangue caldo, che in passato era molto diffuso nel Mediterraneo, dagli anni Sessanta è stato praticamente spazzato via nelle nostre acque.
Fonte notizia
www.isoladilampedusa-pelagie.it