Immaginiamo un poeta che scrive i suoi versi al chiaro di luna, in un gioco di luci ed ombre che contribuiscono a tirar fuori le emozioni più profonde, a raccontare la risalita dal baratro, la rinascita dal buio verso la felicità. “Mi capita talvolta/di immergere le mani/nella sostanza del mondo/argentea linfa di luna/mi cola tra le dita/questa vita”.
E’ questo, metaforicamente, “Moonlight”, l’opera di Stefano Abergo, giovane autore nato ad Acqui Terme (provincia di Alessandria) nel 1997 e laureato in Biologia, pubblicata nella collana “I Diamanti della Poesia” dell’Aletti editore. «Il titolo - scrive, nella Prefazione, Alessandro Quasimodo, attore, regista teatrale e poeta, figlio del Premio Nobel Salvatore Quasimodo - e molti testi della raccolta di Stefano Abergo si collegano alla magia che sprigiona il chiaro di luna. Il paesaggio assume valenze particolari; l’oscurità si illumina creando un chiaroscuro emblematico, che mette a confronto la serenità di una natura che riposa con il tormento dell’animo».
Il lettore viene accompagnato in un percorso interiore che vede il suo traguardo nella rinascita. “Scrivo, per strappare via il dolore - si legge in una sua lirica dedicata proprio alla scrittura - per posarlo nell’infinito/custodito in una gabbia di parole”. Dopo aver smarrito la via, Stefano riesce a voltare pagina riprendendo il senso del cammino terreno, vivendo il presente senza lasciarsi sopraffare dal passato. A volte, il buio è necessario per poter rivedere la luce, per non rimanere fermi in una condizione, sia essa conscia o inconscia, di immobilità, imprigionati nell’ombra più oscura dell’anima. Per intravedere la guarigione bisogna lasciarsi attraversare dalla solitudine, ma anche lasciarsi incantare dagli astri ed incrociare sguardi e persone.
«Questi scritti - spiega l’autore - sono figli di una relazione finita, del dolore e della solitudine che ne sono derivati, ma sono anche figli della notte e dell’insonnia, tutti quanti, infatti, sono stati scritti al chiaro di luna. La raccolta inizia con un testo che mette in esame la felicità e la sottopone al giogo del tempo, per poi continuare ripercorrendo in ordine cronologico la strada verso la guarigione da quello che a tutti gli effetti è stato un lutto; è un viaggio verso l’abisso e il suo ritorno, non è un caso che gli ultimi due scritti siano un ritorno alla felicità, mentre l’apice del dolore si trovi a metà». I versi, perlopiù brevi, danno il senso della musicalità e di una essenzialità priva di fronzoli e illusioni. «Non ho mai scritto per altri, - confessa Stefano Abergo - ma solo per me stesso, per estrarre quel dolore che non sarei stato capace di esprimere in altro modo, ma forse queste poche righe, possono servire a qualcuno per trovare conforto».