Una gioventù vissuta nel clima dittatoriale dell'Albania, quando la maggior parte dei cittadini viveva in condizioni di estrema povertà, e una maturità trascorsa lavorando nell'Italia della crisi economica. E’ la storia personale di Menda Vreto, autrice del libro “I muri non parlano”, ad essere impressa nero su bianco, nell’opera edita da Aletti, nella collana “Gli Emersi della Narrativa”.La scrittrice, nata in Albania nel 1966, si è trasferita in Italia nel 2005 e, attualmente vive a Martinsicuro, in provincia di Teramo. Al centro della narrazione, le sue riflessioni sul lavoro di badante, sul vivere fianco a fianco con persone che soffrono nel corpo o nella mente, sulle infinite ore trascorse lontana dai propri affetti, tra i muri di una casa che non è la propria e che, come ricorda il titolo, assistono silenziose ai drammi e alle piccole gioie della vita. E, a proposito del titolo, la stessa Menda Vreto spiega: «Ho passato molti anni della mia vita chiusa tra quattro mura a fare compagnia a persone che non erano in grado di uscire di casa e, a volte, neppure di parlare. Allora, mi è capitato di parlare da sola. Parlavo con i muri, ma loro non rispondevano».
Più che un lavoro, una “condizione di vita”, in cui le badanti sono come delle predestinate, perché la vita di chi si assiste diventa la loro vita, le sofferenze diventano le loro sofferenze, così come le piccole gioie e soddisfazioni. «Penso che quello dalla badante a tempo pieno non sia solo un lavoro, ma sia una condizione di vita del tutto particolare, perché non esiste più alcuna distinzione tra il proprio impegno lavorativo e la propria vita personale. Non c’è più spazio per contatti, amicizie, interessi al di fuori del tuo rapporto con la persona che assisti, sempre che sia in grado di comunicare. Ho voluto raccontare tutto questo per affermare il senso della mia vita e del mio lavoro, e per dire alle donne che fanno la badante che non si tratta un lavoro umile, ma di un impegno difficile e importantissimo di cui devono andare orgogliose».
Per l’autrice, che ha sempre desiderato studiare e ha sempre avuto la passione per la scrittura, leggere e scrivere diventano modi per restare collegata con il mondo esterno e per sentire che continua a farne parte. Menda, infatti, bisnipote del grande scrittore e intellettuale albanese Jani Vreto, è cresciuta in un clima di speranza e di amore per la cultura e ha studiato fino ad iscriversi alla Facoltà di Agraria. Ma, a volte, è difficile non perdere la speranza, quando le difficoltà sono tante, la povertà incombe e la vita non fa sconti. «Se penso a me e alle altre badanti che conosco, ci sono alcune cose che ricorrono, con poche varianti, in tutte le nostre storie. Emergono poco a poco, dai discorsi che riusciamo a fare mentre camminiamo lente e vicine spingendo ognuna la sua carrozzina, o al telefono sottovoce per non disturbare il sonno leggero dei nostri assistiti, o la domenica sedute davanti a un caffè che ha il sapore particolare del giorno di libertà».
E’ un’opera scritta con uno stile semplice e diretto, in cui si alternano fatti e riflessioni, memorie e sguardi al mondo circostante. Che incarna il vero significato di sacrificio e dignità. «Non credo che dalla sofferenza nascano molte cose belle - afferma Menda Vreto -. È invece più facile che indurisca l’animo delle persone o che le spinga a compatirsi e ambedue queste cose non sono positive. Per quanto mi riguarda, la sofferenza mi ha fatto desiderare che, per quanto possibile, le mie figlie non dovessero avere una vita difficile come la mia. Per fortuna fino ad oggi è stato così e, forse anche grazie alla mia fatica, loro sono due donne giovani, belle e con un lavoro gratificante». E’ un libro che l’autrice scrive per lasciare una traccia di sé in questo mondo. Ma anche per alleviare la solitudine di tutte quelle persone che fanno lo stesso mestiere e, quindi, possono riconoscersi nelle lacrime e nei sorrisi della sua storia; e per arrivare a coloro che sono alle prese con seri problemi familiari e hanno bisogno del loro aiuto, con cui spesso è difficile comunicare per problemi di lingua o di riservatezza. «Vorrei far comprendere la dignità del lavoro di badante e quanto sia importante per noi e per i nostri assistiti percepire la collaborazione e la riconoscenza di chi ha bisogno di noi e ci fa entrare nelle proprie case e nella propria famiglia». Infine, quella riflessione finale che conclude l’opera: «Spero di non essere un peso per le mie figlie. Spero di non avere bisogno di una badante. Se invece dovessi averne una, mi domando a volte come la vorrei. Allora, mi capita di scoprire nel fondo del mio cuore un sentimento di cui non conoscevo neppure il nome. L’ho cercato sul dizionario. C’è scritto che si dice orgoglio e adesso sono contenta di sapere come chiamare quella cosa che affiora alle mie labbra e ai miei occhi come un sorriso appena accennato quando penso che sarei contenta se la mia badante fosse come me».
Federica Grisolia