Il 30 marzo il Parlamento Europeo ha approvato in prima lettura una direttiva, applicabile ai datori di lavoro del settore privato e del settore pubblico, che punta a ridurre il gap salariale tra uomini e donne e garantire così la parità di retribuzione per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore ("principio della parità di retribuzione") attraverso una maggiore trasparenza retributiva e il rafforzamento dei relativi meccanismi di applicazione. Ma cerchiamo di fare chiarezza rispetto alle false notizie che si leggono.
“La direttiva europea – precisa Joelle Gallesi, Managing Director di Hunters Group, società di ricerca e selezione di personale qualificato – è sicuramente molto importante e rappresenta un notevole passo in avanti per rendere i salari più equi, ma dobbiamo fare chiarezza per evitare che si generi confusione, nei candidati e in chi si occupa di selezione. Il primo aspetto che dobbiamo tenere in considerazione è che non c’è ancora un obbligo di legge. La direttiva, infatti, entrerà in vigore il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea e, entro tre anni dall'entrata in vigore, gli stati membri (Italia compresa, dunque) dovranno necessariamente adeguarsi. Ma, lo ripeto, non è una cosa che accadrà domani”. Quali sono le 3 novità principali introdotte dalla Direttiva? 1. I candidati hanno diritto di ricevere informazioni sulla fascia retributiva relativa alla posizione per cui si sono candidati, senza dover sollecitare. Dunque, non è obbligatorio inserire la retribuzione negli annunci di lavoro, ma è obbligatorio comunicare al candidato la retribuzione prima del vero e proprio colloquio (ad esempio, può avvenire anche durante una prima call telefonica conoscitiva). 2. In fase di colloquio e/o di trattativa, non sarà possibile chiedere ai candidati informazioni sulle retribuzioni percepite negli attuali o nei precedenti rapporti di lavoro, ma si potrà chiedere la retribuzione desiderata. 3. I lavoratori hanno il diritto di chiedere ed avere informazioni sul loro livello retributivo individuale e sui livelli retributivi medi, ripartiti per sesso, delle categorie di lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore.
“È importante precisare – aggiunge Joelle Gallesi – che cosa si potrà fare: sarà possibile chiedere al datore di lavoro di conoscere le retribuzioni medie e aggregate dell’azienda, ripartite per categorie (quindi i livelli retributivi medi, ripartiti per sesso e categorie tra loro equiparabili), ma continueremo a non sapere quanto guadagna il nostro vicino di scrivania e lui a non sapere quanto guadagniamo noi. L'errata applicazione della direttiva porta con sé anche dei rischi: le aziende, per ovviare alla direttiva, potrebbero trovare degli escamotage, ad esempio modificando il job title dei propri collaboratori in modo da aggirare il sistema di aggregazione delle retribuzioni medie. Non solo: un’applicazione sbagliata della direttiva potrebbe generare e alimentare malcontenti e pettegolezzi inutili tra colleghi. Chi pensava, quindi, di poter conoscere lo stipendio del proprio collega o del proprio capo rimarrà inevitabilmente deluso: non sarà mai svelato lo stipendio di una singola persona, altrimenti si violerebbe il diritto alla privacy”.