Ammalarsi, nel Medioevo, non era cosa da poco.
Malattie, incidenti e avvelenamenti facevano sì che chi arrivava a superare i quaranta anni doveva ritenersi fortunato. Un bambino su tre moriva prima dei cinque anni e le condizioni di salute erano rese ancora più complicate dalle gravidanze ripetute: in età fertile, una donna partoriva ogni diciotto mesi.
Le carenze alimentari e le carestie debilitavano il corpo e sbaragliavano la strada alle epidemie.
È però difficile identificare dalle cronache le malattie di allora. Ad esempio, secondo un cronista del tempo, Federico II di Svevia morì di una "malattia cattiva", che lo punì del suo essere ghibellino. Dalle descrizioni poteva trattarsi di un'infezione intestinale, così come di un tumore del colon-retto.
A giudicare dalle liste dei rimedi proposti nei trattati, gli avvelenamenti da cibo, le punture di insetti e i morsi di serpente erano comuni nell'area mediterranea. Le farmacie disponevano di una gamma vastissima di antidoti, che nel Basso Medioevo si arricchì ulteriormente grazie alla traduzione e rielaborazione dei testi arabi da parte dei medici islamici, che vi aggiunsero contributi nuovi e originali. Fra i maggiori personaggi di questa corrente, Rhazes fu per molti anni direttore dell'ospedale di Baghdad e autore di oltre centocinquanta testi. A lui si deve la descrizione dei sintomi del vaiolo e del morbillo. Il massimo esponente della medicina araba fu tuttavia Avicenna, autore di oltre duecento opere, tra cui ricordiamo il 𝐶𝑎𝑛𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑐𝑖𝑛𝑎, che riassume tutte le conoscenze dell'epoca e in seguito diventò uno dei testi principali adottati dalle università europee.
Tornando agli antidoti, il più potente era la triaca, una preparazione che includeva oltre cinquanta componenti, tra i quali primeggiava senz'altro la carne tritata di vipera. Secondo la tradizione, la triaca aveva reso immune al veleno di serpente Mitriade VI, re del Ponto e nemico di Roma. Oltre per gli avvelenamenti, era ritenuta una sorta di panacea capace di curare qualsiasi male, peste compresa.
Anche l'ergotismo, i cui sintomi furono associati alla possessione diabolica, era una forma di avvelenamento. A causarla era la ségale "cornuta", cioè contaminata dal fungo 𝐶𝑙𝑎𝑣𝑖𝑐𝑒𝑝𝑠 𝑝𝑢𝑟𝑝𝑢𝑟𝑒𝑎, che produce una sostanza tossica. Diffuso soprattutto in Germania e in Francia, ma meno in Italia dove la se ségale era poco coltivata, l'ergotismo provocava tremori, allucinazioni e «consumava gli individui di detestabile putretudine, talché le membra gangrenose si distaccavano prima della morte».
Temutissimo e terribile, non era però contagioso. Al contrario della lebbra, malattia ritenuta di origine soprannaturale. Importata dal Vicino Oriente, la lebbra corrompeva, mutilava e deformava i corpi, rendendoli animaleschi. I medici medievali dovevano saperla riconoscere per allontanare i malati e limitarne il contagio.
Poiché inoltre la malattia faceva perdere la sensibilità, per individuarla si infilava uno spillone nelle piaghe: a seconda della reazione, il malato poteva ricevere una patente di sanità, oppure l'ingiunzione ad allontanarsi e a rimanere confinato in un luogo. I lebbrosi erano considerati morti viventi, tanto che il loro allontanamento dal mondo dei "vivi" «si accompagnava alla celebrazione di una messa per i defunti e all'aspersione sul capo di terra cimiteriale, inumazione simbolica nella fosse del cimitero» (non a caso, contro la lebbra si invocava San Lazzaro, morto e poi resuscitato da Gesù). Allontanati dal mondo, i malati iniziarono a organizzarsi in comunità ai margini delle città. Nacquero così i lebbrosari: alla fine del XIII secolo, in Europa, se ne contavano diciannovemila!
Questo fenomeno seguì di pari passo la trasformazione degli "infirmari" dei monasteri in cui venivano ricoverati i monaci malati in ospedali. In un tempo in cui la frattura di un osso, rendendo inabili al lavoro, era la porta d'ingresso nel mondo degli storpi e dei mendicanti, orde di poveracci e di malati affluivano nei monasteri, dove potevano ricevere un po' di conforto. Erano, in altre parole, "alberghi dei poveri", ma più che agli ammalati servivano a segregare un'umanità pericolosa e a tutelare i sani. I medici e i chirurghi, infatti, non vi misero piede almeno fino al XIII secolo.
Le eredità più tangibili della medicina medievale sono alcune innovazioni della chirurgia, ad esempio l'anestesia. Con gli anestetici (oppio, belladonna, mandragora, giusquiamo, cicuta) si impregnava una spugna (𝑠𝑝𝑜𝑛𝑔𝑖𝑎 𝑠𝑜𝑚𝑛𝑖𝑓𝑒𝑟𝑎) che veniva fatta annusare al paziente.
Anche alcuni strumenti chirurgici, o il loro perfezionamento, sono di origine medievale. Nella sua enciclopedia medica, un'opera in trenta volumi, il chirurgo arabo Albucasis ne descrive oltre duecento, fra cui bisturi, sonde, seghe, forbici, pinze cateteri e cauteri. Da usare «ogni volta che le altre cure siano fallite».
Secondo i dettami della medicina araba, conosciuti in Italia soprattutto grazie all'attività della Scuola salernitana, la chirurgia doveva intervenire quando un cambiamento dello stile di vita e le cure mediche meno cruente non avevano avuto effetto. Da qui deriva la grande attenzione dei medici medievali per la dietetica e, più in generale, per la prevenzione. Per aiutare i potenti a conservare la salute, nel tardo Medioevo comparvero i 𝑟𝑒𝑔𝑖𝑚𝑖𝑛𝑎, veri e propri manualetti in versi che suggerivano di mangiare e bere con moderazione, dormire regolarmente, controllare l'ira e «svuotare i visceri a tempo e senza indugi».
Nella realtà, erano davvero in pochi a potersi permettere un medico. Di fronte alla malattia si ricorreva perciò alle donne delle erbe, che sapevano preparare unguenti e pozioni, oppure all'esercito di guaritori ambulanti e medici improvvisati, perlopiù analfabeti. Il termine "ciarlatano" deriva proprio dall'unione "ciarla", chiacchiera, e "cerretano", ovvero di Cerreto: località umbra da cui provenivano molti guaritori girovaghi. Nell'Alto Medioevo, prima che la loro disciplina entrasse a far parte dei corsi universitari, erano di bassa estrazione anche i chirurghi, spesso assimilati a macellai, che ricomponevano le fratture, estraevano i denti malati, massaggiavano e operavano (spesso con esito infausto). Anche il barbiere interveniva nelle cure, perché spesso era lui a praticare i salassi.
La medicina che si studiava nelle università restava invece una disciplina staccata dalla pratica e incapaci, al pari di quella dei ciarlatani, di modificare il corso di una malattia. Al più, la complessa teoria degli umori poteva servire come spiegazione.
Il complicatissimo castello teorico elaborato dalla medicina ufficiale crollò però nel 1347, quando, oltre che imponenti nei confronti della malattia, i medici persero anche la capacità di "spiegarla". Viaggiando sulle navi provenienti dall'Oriente, quell'anno in Europa arrivò la peste. La malattia risparmiò il mondo arabo, dove l'igiene era più curata, ma seminò la morte in tutta Europa. In Italia entrò dal porto di Messina dove, sul finire del 1347, approdarono dodici vascelli provenienti da Caffa carichi di grano, topi, moribondi e cadaveri. In Francia, l'anno dopo, la peste sbarcò a Marsiglia. Seguendo le rotte commerciali, giunse via mare anche in Spagna e in Inghilterra mentre in Germania si propagò lungo il fiume Reno.
Ovunque le cronache dell'epoca parlano di veleno, desolazione e morìa. Un cronista senese racconta: «Nessuna campana suonava è nessuno piangeva. E la gente diceva e credeva: è la fine del mondo».
Contro la peste non c'era scampo. La comparsa dei primi sintomi (spesso un bubbone) era per il novelliere Boccaccio «certissimo indizio di futura morte». E la morte sopraggiungeva puntuale tre giorni dopo. In tre anni, il morbo sterminò un terzo della popolazione europea che, prima dell'epidemia, contava circa centomilioni di abitanti.
Incapaci di individuare la causa di una malattia che colpiva tutti indiscriminatamente e non seguiva né corsi né stagioni, alcuni medici incolparono una grande congiunzione astrale dei tre corpi superiori, cioè Saturno, Giove e Marte, verificatasi nel 1345. Nessuno invece sospettò dei topi e delle loro pulci, vettori del batterio 𝑌𝑒𝑟𝑠𝑖𝑛𝑖𝑎 𝑝𝑒𝑠𝑡𝑖𝑠, così comuni nel paesaggio dell'Europa medievale. Quando il numero di cadaveri nelle case e nelle strade fu tale da non consentire più la sepoltura, si scavarono fosse comuni, in cui i morti venivano disposti a strati «come si facessero lasagne», dice un cronista dell'epoca.
Dal punto di vista della medicina, l'impotenza di fronte alla catastrofe gettò nel discredito la classe medica, ma al tempo stesso contribuì alla nascita di un nuovo sistema. I "pubblici uffici", istituiti per arginare l'epidemia e che in tempo di peste si erano occupati dell'organizzazione dei lazzaretti, delle quarantene e delle disinfezioni in seguito presero a vigilare sulla nettezza urbana, sulla pulizia degli alberghi e sulle merci che giungevano nei porti. Era l'embrione del sistema sanitario moderno.